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DIRITTI DEI CITTADINI - DISEGUAGLIANZA SOCIALE IN ITALIA NEL LAVORO: CAUSA INCAPACITA' MERCATO LAVORO ASSORBIRE OFFERTA QUALIFCATA. POSSIBILE ACCENTUAZIONE CONTRASTO SKILL MISMATCH - FLOP GARANZIA-GIOVANI

(2020-01-20)

  Contrastare le  forme di discriminazione sul mercato del lavoro non è facile" ammette Oxfam nel Report presentato oggi (vedi: http://www.italiannetwork.it/news.aspx?ln=it&id=60632).

Nello specifico "  Per quanto concerne il lavoro dipendente una possibile soluzione potrebbe passare per il rafforzamento del grado di concorrenza nei diversi mercati, misura avallata dall’osservazione  che il premio di background a parità di istruzione cresca in Italia nei settori produttivi meno competitivi.

Per quanto concerne il lavoro indipendente, assume invece rilevanza, nell’ottica di garantire maggiore uguaglianza di opportunità a parità di istruzione, la necessità di potenziare, tramite una dote finanziaria pubblica o garanzie pubbliche per linee di credito privato, l’accesso a risorse finanziarie per iniziative autonome ai giovani che provengono da famiglie più svantaggiate e che posseggono un livello adeguato di capitale umano.

E’, dunque,  importante soffermarsi sulle caratteristiche e recenti trend nel mercato del lavoro a cui oggi i giovani si apprestano ad accedere, sulle loro possibili traiettorie lavorative, esiti e difficoltà.

IL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA A 10 ANNI DALLA CRISI
Il quadro d’insieme nel 2018, a distanza di 10 anni dalla crisi economica, restituisce un Paese in cui il livello occupazionale, in crescita per il quinto anno consecutivo, supera di 125.000 unità quello di dieci anni fa, e il tasso di occupazione (58,5%) della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) sfiora i massimi registrato nel 2008.
Il tasso di disoccupazione nel 2018 (in miglioramento nel primo semestre del 2019) resta tuttavia di quasi 4 punti percentuali al di sopra del livello del 2008 (10,6% contro il 6,7%, 1 milione e 100 mila disoccupati in più), mentre si registra un calo degli inattivi, soprattutto quelli che non cercano lavoro e non sono disponibili, ridottisi di 1,1 milione di unità nell’ultimo decennio.

Per i più giovani (classi di età 15-34 anni) la performance occupazionale è tornata ad essere positiva, al netto della componente demografica, solo nell’ultimo quadriennio, dopo 6 anni (2009-2014) estremamente penalizzanti.

Nel suo complesso, l’aggregato degli occupati è oggi più anziano di dieci anni fa: nel 2008 circa il 30% degli occupati aveva un’età compresa tra i 15 e i 34 anni, una quota scesa di oltre 12 punti percentuali e attestatasi al 22% l’anno scorso.

La riduzione del peso dei giovani tra gli occupati è attribuibile a diversi fattori: il calo della popolazione giovane nell’ultimo decennio, l’allungamento dei percorsi di studio e le maggiori difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro dei più giovani, il progressivo invecchiamento di numerosi coorti della popolazione italiana e l’aumento dell’età al
momento del pensionamento.
Il ritorno del numero degli occupati ai livelli pre-crisi è dovuto infine unicamente al lavoro dipendente, in particolare al lavoro dipendente a tempo determinato. L’occupazione alle dipendenze a tempo indeterminato è riuscita a recuperare il drastico calo subito durante gli anni della crisi solo nel triennio 2014-2017, stimolata prevalentemente dagli incentivi in vigore in quegli anni.
Nel 2018 si è registrato tuttavia, in media, un nuovo arretramento, con segni di recupero nei primi mesi del 2019.

SOTTOCCUPAZIONE, PRECARIETÁ E SKILLS MISMATCH
L’andamento crescente degli occupati a tempo determinato negli ultimi dieci anni ha riguardato tuttavia nell’80% dei casi lavori di durata inferiore a 6 mesi. L’anno scorso tale tipologia di lavoro interessava quasi la metà dei dipendenti a termine (+10,8% rispetto al 2008).

Alla ripresa del numero degli occupati non è corrisposta una ripresa altrettanto significativa del volume di lavoro (ore lavorate). La recessione ha causato una forte contrazione del lavoro a tempo pieno (876 mila unità in meno nel periodo 2008-2018, in recupero a partire dal 2015), mentre gli occupati part-time sono cresciuti costantemente nel periodo 2010-2017, raggiungendo quota 4,3 milioni nel 2018 (+30,3% rispetto al 2008), e rappresentano oggi quasi un quinto (18,6%) della forza lavoro. Nel decennio 2008-2018 sono aumentati soprattutto gli occupati in regime di part-time
involontario: sono quasi 1.500.000 in più rispetto al 2008 e rappresentano poco meno dei 2/3 (64,1%) dei lavoratori a orario ridotto e l’11,9% del totale degli occupati.

Lavorare meno di quanto si vorrebbe e non trovare un impiego a tempo pieno è un fenomeno che ha un nome preciso: sotto-occupazione. Nel 2017 il nostro Paese era il fanalino di coda nell’area OCSE per l’incidenza dei sottoccupati (12,2%) più che raddoppiata dal 2005 22. Tra i giovani occupati (in età tra i 15 e i 29 anni) dal 2006 al 2017 la percentuale di sotto-occupazione è aumentata del 12,3%, la seconda, dopo la Spagna, peggior variazione nell’area OCSE a pari merito con la Grecia.

Se si considerano simultaneamente la posizione e il regime orario, la ripresa occupazionale si caratterizza per l’aumento della precarietà lavorativa e vulnerabilità dei lavori più stabili: sono diminuiti di oltre 3 punti percentuali gli occupati con lavoro stabile e a tempo pieno, mentre sono quasi raddoppiati (dal 2008 al 2018) i dipendenti permanenti a tempo parziale involontario.

L’aumento del part-time è spiegato con l’aumento del peso, nella ricomposizione dell’occupazione, dei settori come la sanità, i servizi alle imprese, il settore alberghiero e della ristorazione e quello dei servizi alle famiglie, dove oltre il 25% degli occupati è impiegato in lavori a orario ridotto e con la diminuzione del peso dei settori a maggiore intensità dell’occupazione a tempo pieno, come l’industria e il settore delle costruzioni.

Per quanto concerne la stabilità del lavoro i giovani cedono oggi il passo ai lavoratori più anziani: la quota dei dipendenti (nel range 15-34 anni) a tempo indeterminato si è contratta dell’8,6% nel decennio 2008-2018, mentre quella degli over 35 è aumentata dell’1,1%.
A livello reddituale, i più giovani (15-29 anni) mostrano un trend costante di riduzione delle retribuzioni annue medie e più marcato rispetto alle classi dei lavoratori in età tra i 30 e i 49 anni e gli over50. Un trend che “viene da lontano” e che ha visto, fatta 100 la media dei redditi sulla popolazione in un dato anno, i redditi dei giovani ridursi da 76.3 del 1975 a 60 del 2010 per calare ancora a 55.2 nel 2017. Un calo spiegabile sia in termini di una più prolungata partecipazione a percorsi di istruzione terziaria negli oltre quarant’anni in esame, sia con una genuina riduzione dei
redditi da lavoro nel confronto con le altre classi di età.

L’innalzamento in media del livello di istruzione della popolazione nei dieci anni intercorsi fra il 2008 e il 2018 vede oggi un ricambio generazionale degli occupati in favore di individui più istruiti. Rispetto al 2008, tra gli occupati nel 2018 ci sono quasi 1 milione e mezzo di laureati in più.
Tuttavia la lenta ripresa del lavoro qualificato in Italia fa sì che oggi molti laureati trovino un’occupazione in professioni di bassa o media qualifica che richiedono un titolo di studio inferiore.
Nel 2018 i laureati sovraistruiti erano 1,8 milioni, in aumento (+2% circa) nel periodo 2013-2018 post uscita dalla fase recessiva.

La sovraistruzione costituisce una manifestazione del fenomeno di mismatch tra domanda e offerta di lavoro connotata dall’incapacità del mercato del lavoro di assorbire l’offerta di lavoro qualificato che genera un mancato ritorno Economico e sociale degli investimenti sostenuti a livello individuale e collettivo.

Il drammatico fenomeno della migrazione all’estero - oltre mezzo milione di persone residenti negli ultimi quattro anni, di cui i giovani istruiti costituiscono la maggioranza ne è la riprova: l’assenza di posizioni lavorative qualificate e di prospettive di progressione di carriera contraddistinguono purtroppo in modo negativo il nostro sistema produttivo caratterizzato da una peculiare frammentazione e da un forte sottoutilizzo del capitale umano.

A livello dei Paesi G7 l’Italia è inoltre il Paese con il maggior numero di laureati occupati in mansioni di routine. Il mismatch ha in realtà altre manifestazioni: molte imprese lamentano la difficoltà nel reperire forza lavoro qualificata per le proprie esigenze, mentre l’8% della forza lavoro in Italia (il doppio della media OCSE) risulta, secondo le rilevazioni sulle competenze degli adulti dell’OCSE, under-skilled ovvero con competenze non adeguate alle mansioni da svolgere.

Un “paradosso” che getta luce sullo scollamento fra le competenze richieste dalla domanda di lavoro e quelle acquisite nel corso degli studi e sulla debolezza dei percorsi di orientamento dei giovani al momento della scelta dei percorsi di studio (tanto in relazione al futuro professionale quanto, in senso più ampio, alla valorizzazione delle loro vocazioni ed aspirazioni) e della transizione scuola-lavoro che, più in generale, vedeva nel 2017 tra i giovani che hanno concluso il percorso di istruzione e formazione da non più di tre anni, un tasso di occupazione pari ad appena il 48,4% per i diplomati (contro il 74,1% della media europea) e al 62,7% per chi ha un titolo di studio universitario, oltre 20 punti percentuali sotto la media UE.

Il contrasto allo skill mismatch – un fenomeno che rischia di accentuarsi con la repentina evoluzione tecnologica dei processi produttivi – richiede oggi azioni di rafforzamento delle competenze nel corso dell’intera vita lavorativa (life-long learning) con un ampliamento delle opportunità di formazione e diversificazione delle stesse.

IL FENOMENO NEET
Un segno emblematico delle difficoltà per le persone più giovani nel nostro Paese ad aspirare a un futuro dignitoso e a un adeguato livello di benessere individuale è rappresentato dall’elevata incidenza dei giovani NEET, persone che non hanno né cercano un impiego, non studiano e non sono impegnati in attività di formazione o aggiornamento rofessionale: una “generazione in panchina”, in equilibrio precario tra rischi da cui difendersi e opportunità da cogliere, incapace di esprimere a pieno il proprio potenziale.

Nel 2018 quasi 1 giovane italiano su 4 in età tra i 15 e i 34 anni si trovava in una simile condizione, con un’incidenza dei NEET superiore di quasi 4 punti percentuale a quella del 2005, in calo rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (27,4%) 27, sebbene la riduzione sia prevalentemente attribuibile all’allungamento del periodo di studi e a fattori di carattere demografico.

Nel confronto europeo, con l’incidenza dei NEET al 28,9% nel 2018 tra i giovani over20, l’Italia continuava tristemente ad occupare un solitario primato 28, lontano di oltre 12 punti percentuali dalla media UE.

Le medie nazionali nascondono profondi divari nella distribuzione territoriale dei NEET con il Mezzogiorno a manifestare un’intensità particolarmente marcata del fenomeno. La concentrazione maggiore dei NEET tra i 16 e i 29 anni in Italia interessa principalmente le famiglie a basso reddito, sebbene solo nel 40% dei casi (nel 2017) si tratta di famiglie a rischio di povertà. La platea dei NEET è poi estremamente disomogenea 29 con i gruppi sociali più fragili, verso cui indirizzare interventi più articolati e commisurati alle specifiche necessita, rappresentati dagli early leavers del sistema
scolastico, dagli scoraggiati nei confronti del proprio successo nella ricerca di lavoro costretti all’inattività, dai lavoratori intermittenti o liberi professionisti economicamente dipendenti da un unico datore di lavoro, dalle giovani adulte che manifestano forti difficoltà di conciliazione tra vita e attività lavorativa.

Tra le misure di contrasto al fenomeno NEET - variegate come i bisogni differenziati di questo gruppo – le attività di formazione e le politiche attive di orientamento, sostegno e inserimento nel mondo del lavoro hanno assunto un ruolo centrale, sebbene non esclusivo, nel nostro Paese, realizzate attraverso un’azione prevista e finanziata in prevalenza con fondi europei, “Garanzia Giovani” 30 avviata in Italia a inizio maggio del 2014 e rivolta ai giovani NEET tra i 15 e i 29 anni di età. Un programma,coordinato dall’inizio del 2017 dall’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) e articolato su nove misure che mirano a ridurre la distanza tra i giovani e il mercato del lavoro attraverso una sinergica collaborazione del sistema dei servizi e dell’istruzione, degli enti locali, sindacati e realtà imprenditoriali.

Il programma, presentato come una “rivoluzione copernicana”, ha in effetti registrato un’ampia adesione da parte dei giovani, ma è stato caratterizzato nel primo triennio, secondo la Corte dei Conti Europea, da progressi limitati e risultati non in linea con le aspettative. In questo arco temporale poco più del 42% dei giovani che hanno completato un intervento programmato ha registrato un esito positivo in termini occupazionali. I servizi di orientamento professionale erogati a livello territoriale dai centri per l’impiego hanno mostrato forti limiti: l’attività di effettivo supporto perchi affronta la transizione professionale (scuola-lavoro oppure disoccupazione-lavoro) è risultata residuale rispetto al profiling (valutazione delle competenze) dei giovani NEET.

Il maggior tasso di partecipazione alle misure di Garanzia Giovani ha riguardato i tirocini (con criticità relative ai ritardi
nei pagamenti dei tirocinanti) in prevalenza nei settori del commercio all’ingrosso, riparazione di auto- e motoveicoli, servizi d’alloggio e di ristorazione e settore manifatturiero. Dopo i tirocini, le misure di politica attiva messe in campo con maggior frequenza hanno riguardato il bonus occupazionale e la formazione mirata all’inserimento lavorativo. Un risultato deludente che ha portato la Corte dei Conti a caratterizzare, nel novembre del 2018, Garanzia Giovani come un “programma di promozione e sostegno agli stage che, confrontato con una situazione dell’occupazione giovanile di poco migliorata negli ultimi anni, lascia forti dubbi sull’efficacia di queste esperienze” . Il ricorso agli stage per qualifiche di aiuto cameriere, cassiere, commesso o collaboratrice familiare (spesso senza alcun controllo da parte degli organismi preposti circa la qualità e la congruità delle offerte) appare a ragion veduta più un veicolo di risparmio (continuativo) sul costo del lavoro che l’avvio di un progetto finalizzato a un’effettiva assunzione. (20/01/2020-ITL/ITNET)

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