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PATRONATI ITALIANI NEL MONDO - INFORTUNI PROFESSIONALI - TRIBUNALE DA RAGIONE ALL'INCA CGIL : CONCAUSE NON PROFESSIONALI NON INFICIANO DOVERE DATORI DI LAVORO CONTROLLO E VIGILANZA.

(2017-05-19)

  "In caso di infortunio o malattia professionale il datore di lavoro può essere esonerato dalle responsabilità civili soltanto nella ipotesi che il lavoratore abbia posto in essere un comportamento “abnorme ed esorbitante” che, tuttavia, va valutato in relazione sia alle direttive ricevute che sulla base della sua esperienza."
  E’  quanto hanno stabilito alcune sentenze che, pur nella diversità dei casi esaminati, ribadiscono gli obblighi del datore di lavoro in termini di prevenzione e di conseguenti responsabilità. In ordine di tempo, il Tribunale di Bergamo, con la sentenza n. 144 del 16 febbraio 2017, ha affermato che in caso di infortunio sul lavoro di un dipendente di un appaltatore, grava sull’impresa l’onere di provare di aver fatto il possibile per evitarlo, avendo messo in atto tutte le misure di prevenzione e di sicurezza, mentre nei confronti del committente esiste soltanto una responsabilità extracontrattuale. 
A sottolinearlo il Patronato INCA CGIL nel "fondo" a firma Lisa Bartoli, responsabile della comunicazione dell'Istituto, nell'ultimo numero di "Esperienze", il settimanale che entra nel vivo delle problematiche che richiedono l'impegno de la tutela del Patronato della CGIL dei diritti dei lavoratori e cittadini

"Lo stesso principio - fa presente l'INCA - è stato poi ribadito dal Tribunale di Taranto, chiamato a pronunciarsi su due ricorsi promossi dall’avvocato dell’Inca Massimiliano Del Vecchio, in materia di malattia professionale per il riconoscimento dell’indennizzo Inail e del danno differenziale. In entrambi i casi, le sentenze non solo hanno accolto le ragioni di chi difendeva i lavoratori esposti a sostanze nocive per prolungati periodi, ma hanno ribadito che è dovere del datore di lavoro non soltanto predisporre i necessari presidi strumentali (mascherine e quant’altro per prevenire l’insorgere di una patologia), ma verificare che tali presidi vengano effettivamente utilizzati.

Il comun denominatore di questi due ultimi verdetti è il Ministero della difesa, che nelle sue memorie ha resistito contro le pretese di due operai dipendenti (di cui uno deceduto per tumore d’amianto) cercando di ridurre le proprie responsabilità, evocando tra le cause della patologia professionale il comportamento colpevole del lavoratore. Il caso esaminato nella sentenza n. 1007 del 3 marzo scorso è emblematico: si tratta di un operaio dell’arsenale della Marina Militare di Taranto, saldatore elettrico e autogenista dal 1962 al 2000, che a causa di una esposizione continuativa a polveri e fibre di amianto, ha contratto un  carcinoma della laringe e ispessimenti pleurici, senza che l’Inail, peraltro, avesse riconosciuto la natura professionale della patologia. 

A nulla sono valse le ragioni dell’Arsenale militare per dimostrare che l’esposizione all’amianto non fosse l’unica causa dell’insorgere della malattia, ma una determinata predisposizione morbosa del lavoratore. Il Tribunale, richiamando numerose altre sentenze di Cassazione ha ricordato che  “il nesso causale tra malattia e causa lavorativa non è escluso da una precedente predisposizione morbosa del lavoratore e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extralavorativa. Ne consegue che la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all’entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma debba essere riconosciuta per l’intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali, in forza del principio di equivalenza causale”.

Da qui l’accoglimento della regola del 51%, detta del “più probabile che non”, già seguita da tutta la giurisprudenza civilistica, sottolinea la sentenza, in virtù della quale per “l’accertamento del nesso causale basta che l’ipotesi dedotta sia la più ‘suggestiva’, che goda  cioè di una legge generale di copertura statistica superiore al 50%”. La conclusione del Tribunale non poteva che essere quella di ritenere accertato che, in concreto, il lavoratore durante la propria attività lavorativa, sia stato continuativamente  esposto a sostanze cancerogene senza che i responsabili datoriali abbiano posto a sua disposizione i necessari presidi strumentali o, quanto meno, senza che essi abbiano congruamente verificato che tali presidi, laddove esistenti e disponibili, venissero effettivamente utilizzati”.

Lo stesso orientamento è stato espresso in un’altra sentenza del Tribunale di Taranto (n. 1767 del 3 maggio), con la quale è stata accolta la richiesta di risarcimento del danno biologico in favore degli eredi di un operaio, tubista calderaio presso l’Arsenale Militare, deceduto per una neoplasia polmonare nel 2008, dopo una esposizione a sostanze nocive, che si è protratta nel tempo, svolgendo mansioni diverse, fino al 1999. Anche in questo caso, sulle cause del decesso l’impresa ha cercato di dimostrare la condotta colpevole del lavoratore dovuta alla sua “abitudine tabagica inveterata” (cioè assiduo fumatore di 25 sigarette al giorno per 40 anni), per la quale chiedeva la rimodulazione della richiesta risarcitoria.

Ma per il Tribunale, ciò non è sufficiente a sollevare dalle proprie responsabilità il Ministero della Difesa, il quale va sanzionato, così come previsto dall’articolo 2087 del codice civile, “per omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (…)”.

“La regola del più probabile che non, così come articolata dalle sentenze – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza dell’Inca – ci consegna un quadro giurisprudenziale di notevole interesse che ribadisce l’obbligo del datore di lavoro di attivare tutte le azioni necessarie di prevenzione e di sicurezza nei luoghi di lavoro, censurando anche comportamenti delle imprese che pur di essere sollevati dalle proprie responsabilità, non esitano a ricercare colpevoli condotte dei lavoratori.
Il giudizio espresso in queste sentenze è chiaro: le concause non professionali, laddove si manifestino, non inficiano il dovere dei datori di lavoro di controllare e vigilare affinché i dispositivi individuali di prevenzione siano effettivamente utilizzati, tanto meno il diritto dei lavoratori ad essere risarciti dei danni subiti in conseguenza dell’attività svolta. Ciò richiama anche l’obbligo dell’Inail ad attivarsi affinché la tutela assicurativa sia garantita a tutto tondo, senza ricorrere ad escamotage giudiziari pur di non riconoscere quanto dovuto a coloro che restano vittime di infortuni o di malattie professionali”. conclude l'INCA CGIL. (19/05/2017-ITL/ITNET)

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