Direttore responsabile Maria Ferrante − martedì 16 aprile 2024 o consulta la mappa del sito
italialavorotv.it

Sponsor

IMPRESE ITALIANE NEL MONDO - BREXIT - CONFINDUSTRIA (CENTRO STUDI) : "CONSEGUENZE PER IMPRESE ITALIANE NEL MONDO ? AUMENTO IDE PARI A 26 MILIARDI DI EURO, CON INCREMENTO PIL 0,4% MA SETTORI EXPORT A RISCHIO

(2019-01-16)

  Confindustria si domanda quale impatto avrà il voto negativo di ieri  sull'accordo presentato ieri da Theresa May, relativamente alla Brexit in ambito economico-finanziario ? A rispondere un articolo di Tullio Buccellato e Petro Mambriani
del Centro Studi di Confindustria che sottolineando lo statu quo, affronta delle ipotesi ed offre la doppia valenza che tali ipotesi potrebbero produrre in ambito europeo ed italiano in particolare.

"Che impatto ha il voto di ieri? L’esito negativo del meaningful vote (432 voti sfavorevoli all’accordo sul divorzio dall’UE contro 202 favorevoli) non fa che accrescere l’incertezza sulle modalità e i tempi dell’uscita del Regno Unito dall’UE. Mentre infatti una vittoria del sì avrebbe reso certa la data del 29 marzo e le modalità sarebbero state quelle contenute ell’accordo
negoziato dal Primo Ministro Theresa May con Bruxelles, ad oggi questi elementi sono stati entrambi rimessi in discussione; persino la tenuta del Primo Ministro, se non della sua intera coalizione di Governo, adesso è in bilico. Vista la débâcle, il leader laburista Jeremy Corbyn ha già chiesto un voto di sfiducia contro il Governo. Ciò rende meno probabile un secondo voto sull’accordo e non si può escludere uno scenario di voto anticipato, con lo spettro degli outcome che allo stato attuale, almeno in linea teorica, spazia ancora da ‘no Brexit’ a ‘no deal’. Questo rende anche più probabile il ricorso all’estensione delle negoziazioni, così come previsto dall’Art. 50 dei Trattati.

Quali le conseguenze per l’economia britannica? Il Regno Unito è il paese europeo più esposto alle incertezze legate alla Brexit e l’esito del voto purtroppo le acuisce. La sterlina resta ai minimi, mettendo a rischio gli sforzi della Banca d’Inghilterra volti a contenere l’inflazione; nei primi mesi della Brexit l’inflazione aveva accelerato superando la soglia del 3% con ripercussioni immediate sulla fiducia dei consumatori e sulle loro capacità di spesa; fattori che ad oggi, nonostante il calo dell’inflazione, restano problematici.

Inoltre il PIL, a partire dal 2016, non ha fatto che rallentare soprattutto per le due componenti di consumi e investimenti,
entrambe vulnerabili all’elevata incertezza; il calo drammatico degli investimenti potrebbe  avere effetti negativi anche nel medio lungo periodo, per il ridimensionamento della crescita potenziale.

Quali le sfide per le imprese italiane (ed europee)? Le imprese italiane ed europee si trovano a dover fronteggiare rincipalmente due tipologie di ostacoli che, aldilà del voto di ieri, sono legati all’evento della Brexit in sé; il rifiuto dell’accordo aumenta l’incertezza e questo rende più complesse le strategie degli operatori. Ci sono prima di tutto i problemi per le imprese multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come base logistica o che comunque hanno delle attività sul territorio britannico e sono parte di catene del valore distribuite su base europea e potrebbero dover rivedere alcune scelte organizzative per adattarsi al mutato contesto; inoltre molte imprese multinazionali si appoggiano alla piazza di Londra per la
gestione dei servizi finanziari, vi è quindi la possibilità che ci possano essere aumenti del costo del credito per le imprese. In seconda battuta ci sono tutti gli ostacoli che le imprese esportatrici italiane si troveranno a dover affrontare quando il Regno Unito uscirà dal mercato unico. Aver rimesso sul tavolo l’eventualità di un ‘no deal’ implica la possibilità che si ricada in
uno scenario in cui, almeno per un periodo e per determinate categorie di prodotto, si potrebbe finire per utilizzare le regole tariffarie del WTO.

Come si sta preparando l’Europa? La Commissione europea ha nei mesi scorsi pubblicato una serie di comunicazioni e di avvisi ai rappresentanti di interessi (notice to stakeholders), che  illustrano le implicazioni giuridiche e pratiche e la normativa applicabile per tutti i settori in caso di uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo: dalla salute e sicurezza alimentare,
fino ai trasporti, passando per i servizi finanziari, l’ambiente e il mercato interno.

Esistono opportunità legate ai cambiamenti in atto? L’uscita del Regno Unito dall’UE potrebbe mettere in moto la  riallocazione, almeno parziale, degli investimenti diretti esteri (IDE).
Secondo questo scenario, per i paesi UE ci saranno opportunità di maggiori capitali esteri in entrata. Uno studio effettuato a ridosso del referendum sulla Brexit stimava una diminuzione degli IDE nel Regno Unito del 22% in dieci anni. Ciò equivarrebbe a circa 282 miliardi di euro di capitali esteri che potrebbero affluire nei paesi UE. L’attrazione di questi nvestimenti esteri da parte dei singoli paesi potrebbe dipendere anche dalle loro caratteristiche strutturali.

Il Centro Studi Confindustria stima che l’effetto netto della Brexit per l’Italia potrebbe determinare un aumento di IDE pari a 26 miliardi di euro. Un tale incremento si tradurrebbe in un aumento del PIL pari a 5,9 miliardi di euro annui, ovvero lo  0,4%

Anche se - spiega CSC - dei 282,3 miliardi di euro in uscita dallo UK, il CSC stima che, l’Italia, grazie alla distribuzione settoriale degli IDE al suo interno, ne attrarrebbe il 10,2% corrispondenti a 28,8 miliardi di euro. Un tale incremento si tradurrebbe in un aumento del valore aggiunto prodotto dalle multinazionali presenti in Italia di 7,2 miliardi annui, pari a un incremento di circa lo 0,5% di PIL. Tale stima viene poi corretta in considerazione del possibile rientro di capitali inglesi dall’Italia. In uno scenario in cui la quota dei capitali in uscita dal Regno Unito equivalga a quella in uscita dall’Italia, il CSC stima che lo stock di capitali inglesi in Italia si riduca di 2,7 miliardi di euro. Una tale riduzione si tradurrebbe in una diminuzione del valore aggiunto prodotto dalle multinazionali inglesi in Italia di 1,3 miliardi di euro annui, pari allo 0,1% del PIL. Si determina così l’effetto netto dello 0,4%. Le stime sono basate sulla struttura settoriale nei paesi facenti parti dell’UE-15 al 2013. Inoltre, esse sono soggette ai cambiamenti dovuti alla modalità e ai tempi in cui si realizzerà la Brexit.

Ed allora ad oggi: Quali gli scenari possibili?

Il voto decisamente sfavorevole all’accordo raggiunto da Theresa May con Bruxelles rende più incerti modalità e tempi dell’uscita del Regno Unito dall’Unione.
L’unica cosa che al momento appare certa è che oggi il Governo dovrà far fronte a un voto di sfiducia chiesto dal leader laburista Corbyn; se il Governo dovesse ottenere la fiducia dovrà poi presentare entro tre giorni uno statement su come procedere

Ad oggi, lo spettro dei possibili risultati finali della Brexit spazia ancora dallo scenario di un no deal, che si verificherebbe nel
caso di un mancato accordo tra le parti, a quello di ‘no Brexit’, nello scenario in cui venga indetto un nuovo referendum a seguito del quale prevalga la scelta del popolo britannico di restare nell’Unione europea. L’esito negativo del voto rende anche possibile l’allungamento dei tempi per le trattative, con UK che potrebbe richiedere l’estensione come previsto dall’Art. 50 dei trattati dell’Unione europea.

Qui di seguito vengono ripercorsi brevemente alcuni degli scenari possibili:

Secondo voto sull’accordo – la May potrebbe tornare al tavolo negoziale con l’UE per chiedere altre concessioni, argomentando che l’accordo rigettato dal Parlamento è la base per un ulteriore round di negoziazione. Questo scenario appare oggi ancor meno  probabile a seguito del voto di ieri e della lettera congiunta del 14 gennaio del Presidente del Consiglio europeo Tusk e del Presidente della Commissione Juncker in cui si ribadisce che l’accordo siglato a novembre non potrà essere cambiato.

Piani alternativi – in questo caso potrebbero essere messe sul tavolo una serie di proposte alternative all’accordo: soluzione di un accordo di libero scambio, Unione doganale, accordo stile Norvegia. Queste opzioni, anche alla luce della lettera congiunta dei due presidenti, ad oggi sembrano più un auspicio per le negoziazioni sulle future relazioni che non un’opzione per rinegoziare l’accordo di novembre 2018.

Secondo referendum – questo scenario porterebbe ad un ampio range di conseguenze: da un’uscita senza accordo, a un’uscita secondo l’accordo di novembre 2018, fino ad un ritiro dell’Art. 50, ovvero alla permanenza UK nell’UE.

Il governo britannico si è sempre detto ufficialmente contrario all’estensione delle trattative prevista dell’Art. 50, ma l’attuale situazione rende possibile un ripensamento. Ogni opzione presentata qui sopra difficilmente potrà realizzarsi senza un prolungamento della data di scadenza fissata al 29 marzo. D’altra parte che la Brexit fosse un processo di una complessità senza precedenti e inoltre del tutto inedito nella storia dell’Unione lo si sapeva sin dall’inizio; il fatto che potesse richiedere più tempo era quindi altrettanto da mettere in conto fin dalle prime fasi delle negoziazioni; peraltro la necessità di un’estensione era già stata sollevata da più parti .

Lo scenario incerto penalizza soprattutto l’economia britannica Il voto di martedì avrà senza dubbio un effetto negativo sulla fiducia degli operatori perché non fa che acuire le incertezze sull’esito finale della Brexit, che, con un voto positivo sull’accordo, avrebbe per lo meno incanalato il processo su binari ben delineati e traiettorie più prevedibili. La sterlina
resta vicina ai minimi (-12,8% sull’euro rispetto al periodo pre-Brexit).

La forte svalutazione potrebbe innescare un circolo vizioso in cui l’inflazione, momentaneamente tenuta sotto controllo dalle politiche monetarie restrittive della Banca d’Inghilterra, potrebbe tornare a crescere, con effetti negativi che a sua volta si
ripercuoterebbero sulla fiducia dei consumatori e, in ultima analisi, sulle loro scelte di spesa.
Gli effetti di una situazione di prolungata incertezza non tarderanno a farsi sentire sulle statistiche riguardanti l’economia reale, che a partire dal 2016 sta già attraversando una fase di rallentamento. Se ciò sia imputabile alla congiuntura o agli effetti della Brexit è difficile determinarlo in modo certo, sintomatico è però il marcato calo nella componente degli investimenti, variabile su cui pesa la compromessa fiducia delle imprese.

Stessa dinamica potrebbe ritrovarsi rispetto ai consumatori, la cui fiducia si attesta sempre ai minimi storici e il cui contributo alla crescita attraverso la spesa in consumi tenderà a restare più bassa rispetto al triennio 2015-2017, che già l’aveva vista gradualmente ridursi. I dati di novembre sull’andamento dell’economia reale suggeriscono che il rallentamento fosse già in corso nell’ultimo trimestre del 2018, mentre i dati qualitativi indicano come l’economia britannica fosse pressoché in stagnazione.
La prolungata incertezza e gli effetti che questa già produce riguardano da vicino l’Italia e, più in generale, tutti gli altri paesi dell’UE. In questo senso vanno considerati il più elevato grado di complessità a cui dovranno far fronte le imprese multinazionali operanti su catene del valore con attività tra UK ed UE, i rischi per le imprese esportatrici italiane verso il Regno Unito, e, seppure non compensative degli effetti negativi della Brexit, le possibili opportunità che potrebbero derivare dai cambiamenti in atto.

Quali sfide per le imprese italiane ed europee ? Le sfide poste alle imprese italiane ed europee sono di due ordini, e sono ascrivibili al cambiamento delle regole di accesso al mercato britannico; il voto di ieri aumenta l’incertezza e rende più difficili le scelte degli operatori. Ci sono prima di tutto i problemi per le imprese multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come
base logistica o che comunque hanno delle attività sul territorio britannico e sono parte di catene del valore distribuite su base europea; si pensi per esempio alla Airbus che nel Regno Unito impiega 14.000 addetti e che ha già espresso preoccupazione per le possibili inefficienze e rallentamenti al processo produttivo che potrebbero derivare dallo scenario peggiore in cui non si raggiunga alcun tipo di accordo.

Ci sono poi i big player nel settore bancario, multinazionali del calibro di JPMorgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley, che hanno più volte ripetuto la loro intenzione di spostare a Francoforte i loro head quarter europei. Inoltre, molte imprese multinazionali si appoggiano alla piazza di Londra per la gestione dei servizi finanziari. Ovviamente la gestione della
complessità dei problemi legati alla fornitura dei servizi finanziari da parte delle società operanti nella City di Londra dopo la Brexit ricade in primis sulle corporation finanziarie, che dovranno proporre soluzioni adeguate per continuare ad offrire servizi in modo competitivo alle imprese.

Sicuramente alcune grandi corporation finanziarie decideranno di spostarsi per continuare a servire i loro clienti europei e ciò non avverrà a costo zero. Un ulteriore rischio è quello legato alla frammentazione dei capitali che vengono attualmente concentrati sulla piazza di riferimento londinese. Il rischio è nel complesso quello di un aumento della bolletta da servizi finanziari. Questo genera anche incertezza sulla capacità dell’Italia, come di altri paesi europei di continuare ad allocare il proprio debito in maniera efficiente e con gli stessi costi. Se infatti non si riuscisse, l’aumento dei tassi di rendimento ricadrebbe da una parte sulle imprese e le famiglie e dall’altra sulle banche, che si troverebbero rispettivamente a subire e a dover applicare costi più elevati per avere ed erogare credito. Le banche della City sono state sinora responsabili per la vendita della fetta più consistente del debito europeo, seppure queste attività siano già in calo indipendentemente dalla Brexit perché non garantiscono elevatissimi profitti (a detta di operatori del settore bancario di Londra intervistati da Reuters). La Gran Bretagna in qualche misura rappresenta la banca di investimento europea, visto che anche una parte molto consistente di obbligazioni e azioni emesse nell’UE coinvolge istituzioni finanziarie basate nel Regno Unito.

In seconda battuta ci sono tutti gli ostacoli che le imprese esportatrici italiane si troveranno a dover affrontare quando il Regno Unito uscirà dal mercato unico. L’esito del meaningful vote di martedì rimette sul tavolo l’eventualità di un ‘no deal’, che a sua volta rende possibile ricadere in uno scenario in cui, almeno per un periodo e per determinate categorie di prodotto, si potrebbe finire per dover utilizzare le regole tariffarie del WTO. Il Regno Unito rappresenta un importante mercato di sbocco per l’Italia. Nel 2017 l’export made in Italy verso il mercato britannico ammontava a 23,1 miliardi di euro. Nel periodo 2012-2017 il Regno Unito ha coperto una quota media annua di oltre il 5% dell’export italiano nel mondo che rimane comunque inferiore a quella rilevata per i principali partner europei.

La Brexit pone sfide differenti per i diversi comparti dell’export italiano in relazione al peso che il mercato britannico assume in ciascun settore e al rischio legato all’introduzione di dazi e tariffe nel caso in cui non si raggiunga un accordo di libero scambio.
Ad oggi, il comparto delle “Bevande, vini e bevande spiritose” è quello che potrebbe risentire maggiormente degli effetti negativi legati alla Brexit. Il Regno Unito attrae circa il 12% dell’export italiano complessivo da questo settore, pari a 1,1 miliardi di dollari correnti nel 2017; inoltre, se si applicassero i regolamenti tariffari tra UE e resto del mondo, le bevande sarebbero tra i beni sottoposti a barriere tariffarie più elevate (nell’ordine del 19%). Infine, i regolamenti vigenti nel
settore hanno un alto grado di armonizzazione con quelli europei, quindi un eventuale cambiamento di rotta potrebbe ridurre ulteriormente il livello degli scambi.

Anche il comparto “Agrifood” è a rischio. Nel Regno Unito, infatti, sono stati esportati nel 2017 prodotti agro-alimentari per un valore di 2,6 miliardi di dollari correnti e, nei sei anni 2012-2017, il mercato britannico ha rappresentato una quota media annua del 7,8%. In questo caso oltre alle elevate barriere tariffarie (con un picco del 35% per i latticini) e al possibile cambiamento del quadro regolamentare, si temono ripercussioni di un eventuale allungamento dei tempi di sdoganamento delle merci, che risulterebbe cruciale per alcuni prodotti freschi.

Altri settori che potrebbero risentire dell’uscita dal Single Market del Regno Unito sono: “Legno e arredo” (quota media 2012-2017 dell’8,3%), “Autoveicoli” (7,5%) e “Altri mezzi di trasporto” (6,7%). Seppure l’introduzione di barriere tariffarie non dovrebbe rappresentare l’ostacolo maggiore, per questi comparti (come per tutti gli altri) sarà decisivo l’andamento della domanda interna britannica, che per ora risente del forte deprezzamento della sterlina.
Le percentuali in tabella si riferiscono all'esposizione dell'Italia verso UK, dunque indicano la quota dell’export italiano verso l’economia britannica sul totale dell’export italiano nel mondo.

Esistono OPPORTUNITA'  per le imprese...

I cambiamenti in corso potrebbero generare anche delle opportunità, prima tra tutte quella per i paesi che resteranno nella UE di attrarre imprese multinazionali che abbandonano l’economia britannica. L’uscita del Regno Unito dall’UE potrebbe infatti mettere in moto la riallocazione, almeno parziale, degli IDE. Nel breve periodo è poco probabile lo smantellamento di investimenti in attività produttive già esistenti, mentre sono a rischio il loro ampliamento e/o la creazione di nuovi IDE, in quanto potrebbero essere fortemente penalizzati dall’incertezza del nuovo accordo che si potrebbe realizzare. Secondo
questo scenario, per i paesi UE, ci saranno opportunità di maggiori capitali esteri in entrata. Gli effetti si produrrebbero nel medio termine e sono difficilmente quantificabili in anticipo. Uno studio del 2016 stima una diminuzione degli IDE nel Regno Unito del 22% in dieci anni. Ciò equivarrebbe a circa 282 miliardi di euro di capitali esteri che potrebbero affluire nei paesi UE. L’attrazione di questi investimenti esteri da parte dei singoli paesi dipenderà dalle loro caratteristiche strutturali.

Opportunità per attrarre investimenti potrebbero presentarsi anche per l’Italia. Sulla base del grado di similarità tra le distribuzioni settoriali degli IDE in entrata, con l’importante eccezione dei sevizi finanziari che hanno un ruolo di primo piano per l’economia britannica, emerge come il nostro Paese potrebbe avere delle buone chance, perché i settori italiani a maggiore presenza di capitali esteri (manifatturiero, commercio all’ingrosso e servizi di telecomunicazioni e di informatica) sono gli stessi che occupano le prime posizioni nella distribuzione degli IDE nell’economia britannica. Tuttavia, va considerato anche che le partecipate inglesi in Italia hanno un peso non trascurabile per la nostra economia, in quanto le assicurano un fatturato annuo di circa 35 miliardi di euro, pari al 9,5% delle imprese multinazionali presenti e con 85mila addetti.

Il Centro Studi Confindustria ha stimato che l’effetto netto della Brexit per l’Italia potrebbe determinare un aumento di IDE pari a 26 miliardi di euro. Un tale incremento si tradurrebbe in un aumento del valore aggiunto pari a 5,9 miliardi di euro annui, lo 0,4% del PIL.

Le opportunità che si sono presentate e si stanno presentando in corrispondenza di un avvenimento così epocale come la Brexit trovano però l’Italia impreparata a coglierle per ragioni di ordine strutturale e istituzionale. Tra le ragioni strutturali va annotato che l’Italia soffre uno svantaggio competitivo nel settore dei servizi finanziari rispetto ad altri paesi in Europa, quali per esempio, Paesi Bassi, Germania e Francia, che peraltro godono anche di una posizione geografica più centrale per servire il resto dei paesi membri. Tra le ragioni istituzionali va annoverato che l’Italia, insieme al Regno Unito, è diventato il secondo paese tra i più critici rispetto all’attuale architettura istituzionale dell’Unione, con una maggioranza di governo che a
tratti non ha esitato a porsi in modo antagonista rispetto alla Commissione europea, soprattutto durante le negoziazioni legate all’approvazione della Legge di bilancio.

Ad oggi, per effetto della Brexit il mercato Mts si sposterà a Milano a partire da Marzo 2019. In particolare, verranno trasferite a Milano due piattaforme per lo scambio di titoli all’ingrosso, che in realtà originariamente vennero istituite nel nostro paese da Tesoro e Banca d’Italia. Su un totale di 12 Mts nazionali, a Londra resterà solo la piattaforma per gli scambi di obbligazioni britanniche (Mts UK) mentre le altre 11 si sposteranno a Piazza Affari.

Prepararsi al recesso del Regno Unito – L’azione delle Commissione Quale che sia lo scenario che si prospetta, i cambiamenti derivanti dall’uscita del Regno Unito saranno notevoli.
In tal senso il voto di ieri non rappresenta un game changer, ma piuttosto un elemento che fa aumentare l’incertezza sull’esito finale. La Commissione ha più volte sollecitato cittadini, imprese e Stati membri a prepararsi a tutti gli scenari possibili – compreso quello di un mancato accordo - valutandone integralmente i rischi collegati e pianificandone la risposta al fine di attutirli.

L’Esecutivo comunitario ha pubblicato quindi nei mesi scorsi una serie di comunicazioni e di avvisi ai rappresentanti di interessi (notice to stakeholders), che illustrano le implicazioni giuridiche e pratiche e la normativa applicabile in caso di uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo.

Ad oggi, gli avvisi pubblicati sono 78, e riguardano tutti i settori: dalla salute e sicurezza alimentare, fino ai trasporti, passando per i servizi finanziari, l’ambiente e il mercato interno.

Di immediato impatto per le imprese sono i cambiamenti in materia di servizi finanziari e regole doganali. Nel caso dei servizi finanziari, con il recesso del Regno Unito gli operatori britannici perderanno il diritto di prestare servizi negli Stati membri dell’UE27 nell’ambito del regime UE del passaporto per servizi finanziari. Le attività degli operatori dell’UE nel Regno Unito saranno soggette al diritto del Regno Unito. I pareri e gli orientamenti emessi dalle autorità europee di vigilanza e dalla Banca centrale europea hanno sottolineato la necessità di essere preparati al trasferimento dell’attività e di precisare le prospettive di vigilanza applicabili in tal caso.

Nel caso delle dogane, a partire dalla data del recesso si applicherà integralmente la normativa dell'UE relativa alle merci importate e alle merci esportate, compresa l’imposizione di dazi e imposte (quali dazi doganali, imposta sul valore aggiunto e accise all'importazione), conformemente agli impegni dell’Unione europea previsti dalle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio. Vigerà inoltre l’obbligo di presentare dichiarazioni in dogana alle autorità doganali e potrà essere effettuato un controllo delle spedizioni. 

In mancanza di accordo, a decorrere dalla data del recesso potrebbe essere vietato l'ingresso nell'UE di molte merci e di molti animali soggetti alla normativa sanitaria e fitosanitaria, a meno che il Regno Unito non sia "elencato" nel diritto dell'UE come paese terzo autorizzato. Anche in tal caso occorrerà comunque garantire il rispetto delle rigorose condizioni sanitarie applicabili alle importazioni dai paesi terzi, le quali dovranno essere sottoposte ai controlli effettuati dalle autorità degli Stati membri ai posti d'ispezione frontalieri." conclude la nota congiunturale di Confindustria.(15/01/2019-ITL/ITNET)

Altri prodotti editoriali

Contatti

Contatti

Borsa italiana
Borsa italiana

© copyright 1996-2007 Italian Network
Edizioni Gesim SRL − Registrazione Tribunale di Roma n.87/96 − ItaliaLavoroTv iscrizione Tribunale di Roma n.147/07