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LAVORO - RAPPORTO SVIMEZ MEZZOGIORNO - STAGNAZIONE SALARIALE. LAVORO POVERO= AL SUD 34,3% OCCUPATI (CENTRO NORD 18%). PRECARI 23,8% (13% A NORD, 17,9% AL CENTRO). SENSO INSICUREZZA LAVORO

(2022-11-28)

In Italia, anche in virtù del ricorso della Cassa Integrazione, la disoccupazione ha seguito tra il 2019 e il 2022 tendenze sostanzialmente simili nelle due principali macroaree. Tuttavia, le oscillazioni della disoccupazione esplicita sono state relativamente più ampie nel Mezzogiorno, dove il tasso di disoccupazione è sceso di oltre 2 punti tra il secondo trimestre 2019 e lo stesso trimestre 2020, per poi salire di nuovo al 17,1% all’inizio del 2021 e scendere gradualmente fino al 14% nel secondo trimestre del 2022.

Il ritorno ai livelli occupazionali pre-pandemia è stato relativamente più lento in Italia rispetto ad altri Paesi,  completandosi nel secondo trimestre 2022. Questa dinamica ha portato il numero di occupati nelle regioni meridionali a 6 milioni 160 mila, 46 mila in più (+0,8%) rispetto al corrispondente periodo del 2019. In effetti, nel Mezzogiorno l’occupazione è tornata sui livelli prepandemia in anticipo rispetto al Centro-Nord attestandosi su livelli comunque inferiori rispetto al 2008 (–2,9%), al contrario di quanto avvenuto nel Centro-Nord (+2,6%).

Nel 2022 (media dei primi due trimestri) l’occupazione è cresciuta in Italia del 3,6% (+791 mila unità) rispetto alla prima metà del 2021. L’accelerazione nell’anno in corso ha portato l’occupazione quasi sui livelli pre-pandemia. Il tasso di occupazione è al 59,8%, un punto percentuale in più rispetto al 2019, riflettendo il tendenziale declino della popolazione in età lavorativa, ed è salito di 2,1 punti nel Mezzogiorno (46,4%) e di 0,2 punti nel Centro-Nord (66,7%).

La crescita ha interessato soltanto i maschi (+0,2%) a fronte di un moderato calo dell’occupazione femminile (–0,8%).
Occupati per sesso, classe d’età e cittadinanza, livelli al 2022 e variazioni 2019-2022 e 2021-2022

Il confronto tra i dati 2022 rispetto a quelli del 2019 evidenzia come tra le regioni del Mezzogiorno abbiano recuperato ampiamente i livelli di occupazione pre-crisi Calabria, Campania e Puglia, la Sicilia si colloca viceversa sostanzialmente sugli stessi valori della prima metà del 2019.

Restano ancora decisamente al di sotto del periodo pre-pandemia Molise (–4,5%), Sardegna (– 2,1%) e Abruzzo (–1,8%). Il risultato di Campania e Puglia riflette una crescita particolarmente accentuata nell’ultimo anno (rispettivamente +5,2% e +6,1%).

A livello settoriale si rilevano andamenti alquanto differenziati. La crescita dell’occupazione nell’agricoltura ha interessato soltanto le regioni meridionali (+3,5% rispetto al –0,5% nel CentroNord). Sensibilmente più accentuata è stata la variazione del settore industriale al Sud (+7,1%), dove il boom delle costruzioni (+29,8%) ha compensato il calo dell’industria in senso stretto (– 3,4% a fronte del –0,5% del Centro-Nord).

Nel settore terziario meridionale hanno superato i livelli pre-crisi anche le attività finanziarie e creditizie, e istruzione e sanità.

Dopo la decisa flessione del 2020 è ripreso a crescere il lavoro a termine tornando nettamente al di sopra dei livelli pre-crisi. Sembra confermarsi la dinamica dell’occupazione precaria che aveva caratterizzato il decennio scorso. L’aumento rilevato in Europa delle disuguaglianze tra insider e outsider del mercato del lavoro e tra paesi centrali e periferici, ha assunto in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, dimensioni patologiche se consideriamo insieme la forte crescita del lavoro a tempo determinato e l’esplosione del part time involontario.

La quota di lavoro a termine nelle regioni del Sud supera nel 2022 anche quella della Spagna, caratterizzata storicamente da valori molto alti ma che ha messo in atto nel medesimo periodo politiche volte a ridurne l’utilizzo. Ulteriori indicazioni riguardo l’indebolimento qualitativo del mercato del lavoro italiano, accentuatosi dopo la lunga crisi del 2008-2013, provengono dalla diffusione del part time involontario in Italia. I lavoratori con part time «non per scelta» erano 1,3 milioni nel 2008, mentre nel 2022 sono quasi raddoppiati (2,6 milioni); nel Mezzogiorno sono
passati da 490 mila a 870 mila, raggiungendo una percentuale dell’80% del totale dei lavoratori a tempo parziale.

Nel 2022, media dei primi due trimestri, i lavoratori dipendenti con contratti a termine nel Mezzogiorno registrano il valore più elevato rispetto alle altre aree del Paese, il 23,5%, del totale dei lavoratori dipendenti.

Le forme contrattuali a tempo determinato restano le più diffuse fra le donne e i giovani meridionali: il 25,6% per le donne, il 42,7% per i 15-34enni. Da notare che in questa fascia di età le distanze fra il Mezzogiorno e il resto del Paese sono meno marcate, segno di una questione presente in misura trasversale sul territorio.

Anche i dati sulla persistenza nel tempo nella precarietà testimoniano la maggiore vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale. Nel 2021, il 23,8% dei lavoratori del Mezzogiorno ha un’occupazione a termine da almeno 5 anni sostanzialmente sugli stessi livelli del 2019 e in lieve flessione rispetto al 2020, quasi 10 punti in più del Centro-Nord (14,2%).
Tali numeri contribuiscono a spiegare la “stagnazione salariale”, vera e proprio questione nazionale che si amplifica nel Mezzogiorno. Le retribuzioni lorde unitarie in Italia sono cresciute in termini nominali tra il 2008 e il 2021 di poco meno di 9 punti percentuali rispetto agli oltre 27 della media dell’Ue.

In termini reali, le retribuzioni si sono ridotte nel Mezzogiorno di 9,4 punti percentuali contro i 2,5 in media nel Centro-Nord. È quindi nel Mezzogiorno che la «questione salariale» determina conseguenze più rilevanti sulle condizioni sociali e si riverbera con maggiore intensità sulle dinamiche macro-economiche. Qui, infatti, il tasso di occupazione è strutturalmente più basso, la precarizzazione del mercato del lavoro più evidente, il lavoro fragile è più esposto al
rischio povertà; inoltre, gli effetti depressivi dei bassi salari sulla dinamica dei consumi fanno più danni nelle economie locali maggiormente dipendenti dalla domanda interna.

Una vera e propria emergenza sociale riguarda la diffusione del lavoro povero, una questione nazionale che al Sud ha raggiunto livelli insostenibili a causa di salari unitari più bassi e ridotti tempi di lavoro. I working poor in Italia sono, nell’accezione dell’indagine EU_SILC circa 3 milioni, il 13% degli occupati, rappresentando nel Mezzogiorno circa il 20% degli occupati locali, contro circa il 9% del Centro-Nord

Tra il 2008 e il 2021 le  retribuzioni lorde in termini reali si sono ridotte di circa 9 punti al Sud e di circa 3 al Nord. Il rischio di una spirale inflazionistica salari-prezzi è molto contenuto, tanto è vero che i salari reali sono previsti in calo.
Le riforme strutturali degli ultimi decenni hanno creato condizioni mediamente più sfavorevoli agli adeguamenti salariali. A ciò si aggiungono, in Italia, alcune peculiarità del mercato del lavoro che tendono a ostacolare ulteriormente la revisione al rialzo dei salari: l’ampia diffusione dei contratti atipici e, per le forme più stabili di impiego, la lunga durata dei contratti; il riferimento a previsioni di inflazione al netto della variazione dei prezzi dei beni energetici importati; la ridotta diffusione di clausole di rinegoziazione degli aumenti qualora l’inflazione effettiva superi quella programmata.

In Italia, nel 2021 la quota di lavoratori dipendenti impegnati in lavori a termine da almeno 5 anni (che include quelli con contratto a tempo determinato e i collaboratori) si è attestata al 17,5% del totale dei lavoratori a termine. Il fenomeno della precarietà “persistente” non è tuttavia omogeneo su base territoriale. Nelle regioni del Mezzogiorno si raggiunge il valore massimo di quasi un lavoratore su 4 (23,8%, ma in calo di un punto percentuale rispetto al 2020), quasi 11 punti in più della quota che si registra al Nord (13%) e superiore di oltre 7 punti a quella del Centro.

Tutto questo si traduce in una maggiore difficoltà delle persone a fuoriuscire dalla condizione di precarietà: nel 2020, ultimo anno disponibile, la quota di occupati precari (a termine e collaboratori) che a distanza di un anno trovavano un’occupazione stabile era al Sud particolarmente bassa, pari al 15,8%. Il valore nazionale era del 22,4%, salendo al 26,9% al Nord. Più precari e più a lungo, in sintesi: ciò si traduce in una maggiore percezione di insicurezza del lavoro nelle regioni meridionali.
Cresce in Italia  il fenomeno del lavoro povero: nel 2021 gli occupati dipendenti extragricoli privati con bassa retribuzione (inferiore a 10.700 euro) sono 3,2 milioni, di cui 2,1 milioni al Centro-Nord (il 18% degli occupati) e 1,1 milioni al Sud, ben il 34,3% degli occupati. (28/11/2022-ITL/ITNET)

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