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CULTURA ITALIANA NEL MONDO - WEKEEND ITALIA - A NAPOLI UNA GRANDE MOSTRA SUGLI ETRUSCHI AL MANN: 600 REPERTI, 200 OPERE VISIBILI PER LA PRIMA VOLTA

(2020-07-03)

  Una mostra da non perdere, assolutamente ! Gli Etruschi e il MANN”: una grande mostra ( aperta fino al 31 maggio) per raccontare l’antica popolazione italica.

Una mostra preziosa, sorprendente, innovativa: è in programma al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fino
al 31 maggio 2021,  a cura di Paolo Giulierini e Valentino Nizzo, che con il progetto scientifico di Valentino Nizzo, il coordinamento di Emanuela Santaniello e l’organizzazione di Electa, si rivolge ad addetti ai lavori e non solo.
Seicento i reperti presentati al pubblico: almeno duecento opere, dopo un’attenta campagna di studio, documentazione
e restauro, sono visibili per la prima volta in occasione dell’exhibit, che nasce anche dalla rete stabilita con
il Parco Archeologico di Pompei, dove è stata ospitata la tappa iniziale del percorso con la mostra “Pompei e gli
Etruschi” (dicembre 2018-maggio 2019).

Già con “Egitto Pompei” (2016) e “Pompei e i Greci” (2017), esposizioni che hanno confermato la collaborazione tra il
Parco Archeologico di Pompei ed il MANN, è stato intrapreso un suggestivo viaggio per scoprire le civiltà del passato:
anche grazie al coordinamento di Electa, la sinergia tra le due istituzioni proseguirà dopo la mostra sugli Etruschi,
con la mostra “Pompei e Roma” prevista nella programmazione del Parco Archeologico.

L’esposizione abbraccia un arco temporale di circa sei secoli (X- IV sec. a.C.) e definisce un percorso di indagine che,
sulle orme degli Etruschi, cerca di ricostruire le fondamenta storiche di questa popolazione, la cui grandezza derivava
anche dal controllo delle risorse di due fertilissime pianure (quella padana nel Nord e quella campana nel Sud).
Come ricordava, ancora nel II secolo a.C., il celebre storico greco Polibio “chi vuol conoscere la storia della potenza degli Etruschi non deve riferirsi al territorio che essi possiedono al presente, ma alle pianure” da loro controllate.
La storia della scoperta della Campania etrusca si configura, quindi, come uno dei capitoli più avvincenti della ricerca archeologica in Italia e nel Mediterraneo: in tal senso, il ricchissimo patrimonio, custodito nei depositi del MANN e studiato in occasione della mostra, fornisce uno spaccato inedito nel panorama espositivo internazionale.

L’allestimento della mostra negli ambienti collegati alla sezione “Preistoria e Protostoria”, appena riaperta al pubblico, crea un trait d’union con la sezione museale che, nel suo ultimo livello di visita, raccoglie reperti dell’Età del Bronzo e della prima Età del Ferro.

“Gli Etruschi al MANN tornano per restare. Non solo con una mostra raffinata e dall’altissimo rigore scientifico, ma con l’annuncio dell’allestimento permanente che restituirà alla fruizione del pubblico un altro fondamentale pezzo della storia del nostro Museo, ‘casa’ dei tesori di Pompei ed Ercolano, così come custode di eredità molto più antiche.

Museo della capitale di un Regno, l’Archeologico di Napoli vanta, infatti, collezioni sterminate derivate sia da scavi che da acquisizioni come, ad esempio, quella del bronzetto dell’Elba, reperto più antico ritrovato sull’isola toscana. Ma, soprattutto, nei nostri depositi c’è la testimonianza di una Campania centrale nel Mediterraneo e da sempre coacervo di popoli: Greci, Etruschi e Italici, a conferma che la ricchezza della cultura del Meridione sta nella diversità e nella contaminazione. Per comprendere in pieno gli Etruschi, oggi bisogna quindi volgersi anche al Sud e al patrimonio del MANN, dove duecento pezzi, praticamente inediti, splendono di nuova luce grazie allo straordinario lavoro del Laboratorio di Restauro del Museo.

Un traguardo che mi riempie, come etruscologo, di personale soddisfazione, e che è occasione per ricordare la figura
del celebre archeologo Marcello Venuti, nel 1727 fondatore dell’Accademia Etrusca e, poi, tra gli scopritori di Ercolano”, dichiara il Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Paolo Giulierini.

“Scavare negli sterminati depositi del MANN è sempre un privilegio unico. Farlo per ‘andare a caccia di Etruschi’ lo
ha reso ancora più avvincente. Da un lato perché si è così potuto delineare un rigoroso percorso storico-archeologico
volto a ricostituire la trama di relazioni che caratterizzò la plurisecolare presenza degli Etruschi in Campania.

Dall’altro perché l’approfondimento delle vicende antiquarie e collezionistiche legate alla riscoperta dell’importanza
del loro dominio nella regione ha offerto una prospettiva per molti versi inedita sull’evoluzione della disciplina
archeologica e sul contributo dato ad essa da generazioni di studiosi che, da Camillo Pellegrino a Giovanni Patroni,
passando attraverso nomi del calibro di Giovan Battista Vico, Alessio Simmaco Mazzocchi, Johann Joachim
Winckelmann, Pietro Vivenzio, Eduard Gerhard, Raffaele Garrucci, Theodor Mommsen, Giuseppe Fiorelli, Julius
Beloch, si sono confrontati con questo presunto enigma, fino ad arrivare alla sua definitiva soluzione, al principio
del ‘900, quando il reperto più prezioso, la Tegola di Capua, aveva ormai irreparabilmente lasciato il nostro Paese
alla volta di Berlino”, commenta Valentino Nizzo, Direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Il percorso si articola in due nuclei tematici principali, corrispondenti ad altrettante sezioni espositive con inestimabili reperti:
Gli Etruschi in Campania: dal carattere prevalentemente archeologico, questo segmento dell’itinerario di visita è
dedicato all’approfondimento della documentazione relativa alla presenza degli Etruschi nella regione, dagli albori
del I millennio a.C. alla fase dell’affermazione del popolo dei Campani. Il declino della popolazione è sancito dalle sconfitte subite presso Cuma tra VI e V secolo a.C., in seguito alla quali comincia ad incrinarsi progressivamente la potenza etrusca nella Penisola e nel Mediterraneo;
Gli Etruschi al MANN: questa sezione valorizza i materiali etrusco-italici, generalmente provenienti da aree esterne
alla Campania, acquisiti sul mercato collezionistico dal Museo di Napoli in varie fasi della sua storia. Accanto ai
capolavori in mostra, volumi, plastici e documenti d’epoca illustrano al visitatore l’evoluzione del pensiero scientifico in campo archeologico dal '700 sino alla fine del Novecento, focalizzando l’attenzione sui protagonisti dell'archeologia campana ed, in particolare, su quelli che maggiormente hanno contribuito alla riscoperta del suo passato etrusco.

La mostra “Gli Etruschi e il MANN” è accompagnata dal catalogo edito da Electa, a cura di Valentino Nizzo.
Per l’occasione è stato inoltre edito nelle pubblicazioni scientifiche “Quaderni del MANN” il volume, a cura di Valentino Nizzo, “Gli Etruschi in Campania. Storia di una (ri)scoperta dal XVI al XIX secolo”, strettamente correlato alle tematiche della seconda sezione del percorso espositivo.

GLI ETRUSCHI IN CAMPANIA
Gli “antefatti” della presenza degli Etruschi in Campania (X-VIII sec. a. C.) risalgono al momento cruciale del passaggio tra la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro, quando si avvia il lungo processo di definizione delle diverse culture che caratterizzeranno la regione in età storica.
Nella sezione “Preistoria e Protostoria” del MANN, molteplici reperti, in gran parte provenienti dai corredi funerari rinvenuti nei siti archeologici della regione, tracciano le differenze tra le popolazioni indigene inumatrici, portavoci della “cultura delle tombe a fossa”, e le comunità che seguivano il modello cosiddetto protoetrusco e villanoviano, incinerando i defunti.
Le necropoli di Carinaro e Gricignano d’Aversa (cultura protovillanoviana), Capua (cultura protovillanoviana e villanoviana), analogamente a quelle di Sala Consilina e Pontecagnano (cultura villanoviana), sono tutte localizzate in aree di passaggio dall’entroterra appenninico verso il Tirreno (le Valli del Volturno, del Clanis, del Sarno, del Picentino, del Sele e del Tanagro): i siti testimoniano come l’interazione con gli Etruschi abbia avuto, ab origine, una valenza economica, commerciale e culturale.
Preziosi i reperti che ricostruiscono le caratteristiche della cultura protovillanoviana in Campania: dalle trentadue sepolture della necropoli di Carinaro (XI-X sec. a.C.), è possibile ammirare il corredo della Tomba 12 (in prestito dalla SABAP di Benevento e Caserta), appartenente ad un bambino e caratterizzata da reperti simbolici miniaturizzati.
Da Gricignano di Aversa, la sepoltura ad incinerazione LXII, proveniente dal Museo dell’Agro Atellano (Succivo), restituisce un importante corredo, in cui risalta un modello di calessino, trainato da una coppia di cavalli aggiogati e
condotto da una figura maschile; l’opera in terracotta (databile tra gli ultimi decenni del IX ed i primi decenni dell’VIII sec. a.C.) adotta il motivo figurativo del carpentum (calesse) per testimoniare il prestigio del defunto.

Ammirando i reperti ritrovati a Santa Maria Capua Vetere, è possibile ripercorrere il fenomeno di formazione, nella pianura campana, delle prime “città” degne di questo nome: la Tomba 1/2005 (in prestito dal Museo dell’Antica Capua e risalente al primo quarto del IX secolo a.C., monumentale sepoltura di un capo-guerriero rinvenuta nella necropoli del Nuovo Mattatoio), così come le Tombe 662 e 664 della necropoli Fornaci (seconda metà dell’VIII secolo a.C.), testimoniano una forma di osmosi culturale “ante litteram” con i Greci, da poco stabilitisi a Ischia e a Cuma.
Corredi come quelli capuani attestano la presenza nella regione dei “primi Etruschi” portatori della cosiddetta cultura
villanoviana caratterizzata dall’adozione prevalente dell’incinerazione, con ossuario tendenzialmente biconico, decorato con motivi geometrici incisi a pettine. 

In alcuni centri della Campania (Capua, Sala Consilina e Pontecagnano), che hanno restituito importanti testimonianze
materiali di tipo villanoviano, si riflette la permeabilità culturale delle genti che popolarono la regione, sin dalla prima età del Ferro, stabilendo contatti con i territori dell’Etruria propria (odierna Toscana e Lazio settentrionale).
Non soltanto le ceramiche, ma anche i metalli raccontano il ricco apparato decorativo delle sepolture: armi, rasoi, oggetti di ornamento in ambra del Baltico (il cui commercio sin da epoca remotissima fu monopolizzato dagli Etruschi), fibule da parata con decorazioni a sbalzo da Suessula (Acerra). Sempre da Suessula (collezione Spinelli del MANN), risalta un reperto esposto per la prima volta in occasione della mostra: si tratta del pendaglio pettorale in bronzo laminato con pendenti in bronzo fuso (VIII sec. a. C.), restaurato e ricomposto proprio in occasione dell’exhibit; il manufatto reca tre figure ornitomorfe e termina con il caratteristico motivo della “barca solare”.

Tra VIII e VII sec. a.C., si diffonde, nella vita quotidiana così come nella sua proiezione funeraria, un intenso
fenomeno culturale oggi definito “orientalizzante”: gli insediamenti stabili dei Greci, da Pithecusa (Ischia) a Cuma, favoriscono l’adozione di nuovi modelli artistici e comportamentali, ispirati alle mode delle aristocrazie orientali ed
ai prototipi eroici propri dell’epica omerica.

Ne è una splendida testimonianza la Tomba 104 Artiaco di Cuma (fine VIII sec. a. C.), in cui, grazie ai doni aristocratici,
il rituale greco è arricchito da raffinati manufatti etruschi: scoperta nel 1902 da Gaetano Maglione e Giuseppe
Pellegrini, la Tomba 104 ha restituito, infatti, reperti di straordinario valore.
Appartenente ad un defunto di grande prestigio, sottoposto a un complesso rituale incineratorio di ispirazione omerica, il
sepolcro custodiva un ricco corredo funerario: armi, anche contorte e distrutte dal fuoco, così come vasellame, strumenti legati al banchetto e al simposio, preziosissimi ornamenti personali.
Tra i manufatti di pregio, in esposizione al MANN, spicca un affibbiaglio a spranghe in oro e argento (ultimo quarto
dell’VIII sec. a. C.), anch’esso restaurato per l’occasione: importato probabilmente dall’Etruria e decorato con la rappresentazione di quattro caratteristiche sfingi orientali, il reperto offre un’eccezionale testimonianza del melting pot culturale che caratterizzò la regione nel periodo “orientalizzante”.

In stretto dialogo con la Tomba 104 Artiaco, arricchisce l’esposizione napoletana uno straordinario gruppo di materiali, in prestito dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: si tratta della quasi totalità del corredo della celeberrima Tomba
Bernardini di Palestrina (675-650 a.C.), sepoltura tra le più ricche che il mondo antico ci abbia restituito.
Divenuta un vero e proprio “manifesto” dell’età orientalizzante, la Tomba Bernardini, per la prima volta esposta accanto alla Tomba Artiaco 104, congiunge “idealmente” l’area etrusco-laziale e quella campana in un periodo cruciale per la storia mediterranea: scoperta nel 1876 dai fratelli Bernardini nella necropoli dell’antica Praeneste (odierna Palestrina), la tomba fu immediatamente attribuita ad un principe sepolto nel secondo quarto del VII sec. a.C.

Ornamenti in oro e argento, di manifattura etrusca, accompagnavano il defunto, circondato da armi reali e da parata, così come da preziosi oggetti legati al banchetto.
In esposizione al MANN, alcuni eccezionali reperti: l’affibbiaglio in oro con sfingi, decorato con la finissima tecnica della granulazione; la coppa fenicia in “argento dorato”, che reca la raffigurazione, nei fregi, di scene diverse (una battuta di caccia; un personaggio con una lunga asta, preceduto da un uomo azzannato da un cane; un serpente, che salda testa e coda, racchiudendo tutte le decorazioni proposte); il piccolo calderone in argento dorato, che presenta quattro fregi sovrapposti, con motivi legati al mondo animale e alla caccia.

Ancora in stretto legame con l’allestimento permanente della “Sezione Preistoria e Protostoria” del Museo Archeologico
Nazionale di Napoli, in mostra sono esposti alcuni reperti della Tomba 201 di Calatia (Maddaloni), sepoltura di una
donna aristocratica vissuta nel pieno del periodo “orientalizzante”.

Alcuni oggetti del corredo suggeriscono contatti con l’area etrusca: tra questi reperti, alcuni preziosi ornamenti in ambra ed una rara olla in lamina di bronzo con un caratteristico pendaglio, prodotto senza dubbio da un esperto artigiano itinerante.
Espressione di una fase più recente (630-600 a.C.) della temperie “orientalizzante” è la necropoli di Cales, nell’attuale
territorio di Calvi Risorta: in esposizione è confluito il ricchissimo corredo della Tomba 1, la sepoltura di un nobile
locale, forse un capotribù, accompagnato per il suo ultimo viaggio da quasi 100 preziosi manufatti.

Accanto agli oggetti di uso personale (fibule, anelli ed armille), peculiare, per ricchezza e versatilità di uso, risulta l’apparato vascolare, ceramico e metallico. In mostra, spicca per la sua rarità una piccola brocca in pasta vitrea con superficie irsuta, forse in origine utilizzata come balsamario per versare preziosi unguenti importati dall’Oriente.

Nel VI sec. a.C., in Campania, si assiste ad una progressiva urbanizzazione del territorio: si definisce, così, un fenomeno
di osmosi culturale tra le poleis greche ed il modello “etruschizzante” dei centri indigeni.
Ancora una volta dalle necropoli viene confermata questa tendenza alla contaminatio, che resterà viva anche dopo le pesanti sconfitte subite dagli Etruschi ad opera dei Greci (Cuma, 524 e 474 a.C.). Da Nocera Superiore ed, in particolare, dal sepolcreto rinvenuto nell’Ottocento in località Oschito, provengono interessanti reperti (databili tra fine del VI e il secondo quarto del V sec. a. C.), che testimoniano il consolidarsi del modello di simposio di matrice greca, associando ceramica ateniese di importazione con utensili e vasellame metallico di produzione etrusca (in particolare vulcente) e campana.

Anche nei centri greci del Golfo di Napoli, sin dalla fine del VII ed ancora in parte nel V secolo, sono presenti manufatti importati dall’Etruria o prodotti nei centri etruschi della Campania, come documentano, in particolare, gli unguentari etrusco-corinzi e, soprattutto, gli esempi di ceramica in bucchero campana (la caratteristica ceramica in argilla nera, lucidata e lavorata al “tornio”, nota come bucchero, costituisce ancora oggi un indicatore fondamentale dalla presenza etrusca).
In termini di attestazioni storiche e culturali, da segnalare la selezione di importanti iscrizioni, testimonianze della lingua
etrusca: in mostra, oltre ad un gruppo di coppe con iscrizioni dedicatorie, una copia della celeberrima Tegola di Capua (in prestito dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia), “emigrata” a Berlino alla fine dell’Ottocento, perché ritenuta un falso sulla scia di quanti ancora negavano l’importanza avuta dagli Etruschi in Campania.
Dal Museo Archeologico di Calatia (Maddaloni/Caserta), proviene, inoltre, un’interessante anfora vinaria prodotta a Vulci.
Non soltanto le necropoli, ma anche gli spazi di culto: in mostra, vi sono reperti provenienti da Capua e dal celebre santuario della dea Marica alla foce del Garigliano.
Emblematico, in tal senso, il “tetto campano”, ampio sistema di copertura dei templi: tra VI e V sec. a.C., Cuma e Capua
sono accomunate da questi ricchi rivestimenti di terrecotte policrome, ben riconoscibili, per lo sfarzo, anche fuori dalla regione.

Alcuni materiali di questa tipologia, provenienti da Capua ed appartenenti alle collezioni del MANN, sono state esposti al Museo Civico Archeologico di Bologna in occasione del progetto espositivo “Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna” (catalogo Electa, dicembre 2019): anche la mostra bolognese ha sottolineato come non esista una sola Etruria, ma molteplici territori, tutti sotto l’egida di una sola cultura, quella etrusca.
Chiude il percorso della prima sezione una selezione di vasi legati ad Eracle ed al mito della “gigantomachia”: com’è noto, la lotta tra gli Dèi dell’Olimpo e i Giganti, intorno al VI secolo a.C., venne significativamente localizzata nella pianura flegrea.
Secondo alcuni studiosi, questo motivo iconografico è stato plasmato e manipolato per riecheggiare la contesa tra Greci ed Etruschi (assimilati ideologicamente ai Giganti), conclusasi con la sconfitta di questi ultimi e l’affermazione  dell’ellenica Cuma.

GLI ETRUSCHI AL MANN
Lo studio dell’“identità” etrusca è, in buona sostanza, un fenomeno legato agli sviluppi dell’antiquaria ed alla ricerca, già in voga dal XVII secolo, sul carattere greco o italo-greco del vasellame etrusco.
Sostanzialmente sacrificata rispetto all’analisi sulla Magna Grecia nel Mezzogiorno d’Italia, l’attenzione al mondo etrusco trova espressione nell’acquisizione di importanti reperti nelle collezioni museali: risale al 1815, infatti, l’“immissione” della Raccolta Borgiana nel patrimonio dell’allora Museo Borbonico.

Eppure, con mezzo secolo di anticipo rispetto ai materiali borgiani, un primo splendido reperto etrusco era già entrato a far parte delle collezioni del MANN: si tratta del “Bronzetto dell’offerente dell’Elba” (databile a fine VI/inizi V sec. a.C. e di probabile produzione populoniese), uno dei reperti di più antico rinvenimento all’Elba (1764), mai presentato in
allestimento permanente o temporaneo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli; l’opera fu donata da tale Agarini a Carlo III di Borbone, all’epoca già re di Spagna.
Una premessa importante, dunque, ed un segno concreto di interesse per la cultura etrusca, che entra “di diritto” nel già ampio e variegato patrimonio museale.
Di straordinario interesse antiquario, figura un altro rinvenimento di antichissima data, confluito nelle raccolte del Museo insieme al resto della collezione Borgiana: la Cista Bianchini (dal nome dell’antiquario che per primo la pubblicò), appartenuta al celebre mercante d’arte Francesco Ficoroni; il gruppo di reperti, rinvenuto nell’Agro romano nel 1696, comprendeva materiali originali e falsi.
Non stupisce, quindi, l’ingresso della Cista Bianchini nella celebre raccolta del cardinale Stefano Borgia, artefice,
presso la sua casa a Velletri, di una delle più importanti collezioni private del ‘700, una vera e propria Wundekammer
(“stanza delle meraviglie”) dedicata, come era prassi al tempo, non soltanto agli Etruschi, ma anche agli Egizi,
ai Volsci e alle altre popolazioni italiche: la peculiarità della collezione, che sfugge ad una monolitica connotazione
identitaria greco-romana, attira la curiosità delle più importanti istituzioni europee del tempo.

A prevalere, nella “corsa” alla sua acquisizione, è il Real Museo Borbonico di Napoli, che prende possesso, dunque, di una serie straordinaria di reperti, in grado di documentare la vita delle popolazioni etrusche-italiche: dagli arredi agli utensili (in particolare ciste e pregiati specchi decorati), dagli ornamenti (fibule e pendagli) alle armi, dalle monete alle urne etrusche in terracotta, dagli ex-voto agli apparati decorativi templari.

In mostra, è possibile ammirare, dunque, alcune opere di indiscutibile interesse, presentate in un avvincente racconto antologico: tra queste, le lastre di terracotta di rivestimento del “Tempio delle Stimmate” di Velletri (terzo quarto del VI sec. a.C.); una cista in bronzo (fine del IV- inizi del II sec. a.C.) dal territorio di Palestrina, con piedi lavorati a zampa di felino e coronata da una menade danzante e da un satiro.

Tra gli oggetti della Collezione Borgia acquisiti dal Real Museo Borbonico, vi è un consistente gruppo di monete, i nummi unciales, risalenti al III-II secolo a.C.. Gli esemplari numismatici esposti, in gran parte di certa provenienza borgiana,
documentano alcune delle serie principali di questa prima produzione monetale, specificamente delle zecche dell’Etruria
propria, come Volterra, di Todi e degli ambiti etrusco-campani e laziali, insieme ad un gruppo di esemplari presentati secondo la sequenza ponderale canonica.

La Raccolta Borgiana non rappresenta, naturalmente, l’unico ed importante apporto del collezionismo privato al patrimonio del MANN: dal 1807, si deve all’allora direttore generale Michele Arditi l’attenta operazione di ampliamento dei beni in possesso dell’istituto, candidato a divenire in pochi decenni un “museo universale” per tentare di soddisfare anche la passione antiquaria della regina Carolina Bonaparte, moglie di Napoleone e sorella di Gioacchino Murat.
A questa fase risalgono le cosiddette “Raccolte murattiane”, frutto in realtà anche di acquisizioni che precedono la fase
napoleonica e sono così note anche in seguito al tentativo compiuto di esportarle in Francia all’epoca della  Restaurazione.

Nel complesso di materiali figurano anche numerosi reperti etruschi, in particolare “buccheri campani” di probabile produzione ed origine locale.
Nel 1818, anche la celebre Collezione Vivenzio è annessa al patrimonio del Museo: sono versati 30.000 ducati, una
cifra all’epoca astronomica, per i manufatti raccolti, sin dalla fine del Settecento, da Pietro Vivenzio, un notabile
locale con una passione “d’avanguardia” per gli scavi archeologici e una precoce sensibilità per quello che oggi
definiamo “metodo stratigrafico”.
La Collezione Vivenzio comprende oltre a una cospicua mole di pregiati vasi attici anche alcuni esemplari in impasto ed in bucchero, databili tra il VII ed il VI sec. a.C.
Per implementare le raccolte borboniche con vasellame cosiddetto etrusco, ma di cui era ormai nota la natura
greca, vennero acquistati anche due importanti lotti di vasi attici rinvenuti in Etruria e noti, dal nome del loro iniziale
proprietario, come “Acquisti Falconnet”: nella prima metà dell’Ottocento, infatti, nell’Etruria propria e nel territorio
compreso fra l’allora Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, grazie anche all’azione di un fratello di Napoleone, Luciano Bonaparte, si erano intensificati gli scavi nel sito di Vulci, portando alla luce una massa sterminata di eccezionali reperti.

Tra 1831 e 1836, il Museo di Napoli acquista due lotti di materiali con provenienza dichiarata da Canino, cittadina prossima all’antico sito etrusco di Vulci: intermediari dell’acquisto sono i Falconnet, negozianti-banchieri di origine svizzera ed abili gestori di affari nel milieu del napoletano.

Curiosa anche la vicenda che accompagna l’“Acquisto Gargiulo”: assunto come restauratore del Museo, nel 1844
Gargiulo, che era anche antiquario spregiudicato, non soltanto riesce a vendere all’Istituto ventuno vasi (tipologia
attica con figure nere) e cinque bronzi, ma rinvia a dieci anni dopo (1855), un affare ancora più corposo, per cui sono
inclusi nel patrimonio museale originali etruschi, contraffazioni e falsi, in parte riconducibili alle sue abili mani.

Seguendo il corso dell’Ottocento, la mostra espone per la prima volta anche altri acquisti e donazioni “minori”, dalle oreficerie etrusche Genova e Venturi all’eccezionale gruppo di buccheri pesanti chiusini (ceduti al museo nel 1885 dall’antiquario napoletano Scognamiglio e rinvenuti l’anno prima in una tomba arcaica presso Castiglion del Lago).
Ancor più significativo, per l’importanza del suo possessore, il “Dono Castellani” del 1865, costituito da otto tegole sepolcrali con iscrizioni etrusche di provenienza chiusina.
Alessandro Castellani è uno dei principali antiquari italiani dell’Ottocento, protagonista di alcune delle scoperte più
significative dell’archeologia campana preromana e, purtroppo, anche responsabile dell’espatrio di alcuni reperti.
Si deve, invece, al marchese Marcello Spinelli che, a fine Ottocento, compie indagini sistematiche nel suo terreno di Acerra (antica Suessula), l’inclusione nel patrimonio museale di un numero elevatissimo di reperti (circa cinquemila, tra vasi ed oggetti in metallo).

Da collezioni “minori” provengono altre “prime visioni” in esposizione al MANN: i due balsamari plastici a forma di
cerbiatto accovacciato (secondo quarto del VI sec. a. C., Collezione Santangelo), che rientrano in una tipologia vascolare
molto ricercata, con possibili funzioni di amuleti e di giocattoli; il prezioso anello con scarabeo (IV sec. a.C.,collezione Santangelo), sulla cui faccia inferiore è intagliato il suicidio di Aiace.
Di provenienza ignota la coppia di orecchini a bauletto (seconda metà del VI sec. a.C.), esempio mirabile dell’antica
oreficeria etrusca, capace di equilibrare l’impianto geometrico della costruzione con la varietà dei motivi vegetali
riprodotti sul gioiello; da non perdere anche il pendente in oro (IV sec. a. C.), che forse era anch’esso legato ad un
orecchino.
Chiudono il percorso espositivo un gruppo di sarcofagi ellenistici di terracotta di probabile origine tuscaniese (parte
della collezione Gargiulo) ed uno splendido carrello-incensiere in lamina di bronzo risalente alla fine dell’Età del Ferro,
tra i prodotti più interessanti della metallotecnica di tradizione villanoviana della Campania.(03/07/2020-ITL/ITNET)

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