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CULTURA ITALIANA NEL MONDO - GLI ETRUSCHI : DOMINARONO LA PIANURA PADANA E QUELLA CAMPANA IL LORO DOMINIO E' STATO IGNORATO NEL TEMPO RELEGANDO LA LORO PRESENZA NELL'ITALIA CENTRALE...MA V.NIZZO...."

(2020-07-03)

VALENTINO NIZZO curatore della mostra sugli Etruschi in Campania parla, invece, di un dogma tedesco a cui gli studiosi si attennero fino a che " Giovanni Patroni e Antonio Sogliano ripudiarono il dogma proclamato dal Von Duhn sulla inesistenza di una dominazione etrusca in Campania, che si asseriva doversi ritenere una favella o tutt’al più un’ombra:
dogma accettato fino a quel tempo da tutti i pompeianisti, sì che non si doveva parlare di Etruschi a Pompei, e non se ne
parlava. Chi non ha vissuto quegli anni nell’ambiente ove Pompei è particolarmente studiata, non sa in quali curiose condizioni debbano talora svolgersi gli studi. Ripudiando il dogma, si doveva invece ridare valore alle fonti che  annoverano gli Etruschi tra i dominatori e possessori di Pompei, si doveva dunque parlare di Etruschi a Pompei e cercarveli; come d’altra parte si doveva ammettere la fondazione etrusca di Capua […] e cercarvi le tracce di qualche industria caratteristica degli Etruschi. Chi spinse e chi fu spinto a questo nuovo indirizzo? Non saprei ben dirlo. A volte mi sembra di essere stato io il propulsore, a volte ne dubito” (Patroni 1946-1948, pp. 76-77).

Le frasi di Patroni, tratte da un suo scritto commemorativo in onore del pompeianista Antonio Sogliano, descrivono in modo molto efficace quale fosse l’atmosfera che si respirava nel mondo accademico napoletano ancora alla fine dell’Ottocento in merito alla questione dibattutissima dell’esistenza o meno di un dominio degli Etruschi esteso anche alla Campania. Un vero e proprio “terrore”, come Patroni aveva già ricordato in un altro suo scritto (Patroni 1912, pp. 601-602), legato anche all’assertività delle posizioni espresse sin dalla prima metà del XIX secolo da alcuni dei più illustri storici e archeologi tedeschi (Barthold Georg Niebuhr, Karl Otfried Müller, Theodor Mommsen, Friedrich von Duhn ecc.), artefici di una vera e propria demolizione della tradizione, relegata nel novero delle favole anche in virtù dell’assenza, almeno apparente, di testimonianze materiali e/o epigrafiche che potessero indubitabilmente suffragarle. Furono proprio ragioni come queste a indurre in errore Giulio De Petra, all’epoca direttore del Museo, quando nel 1898 espresse parere negativo in merito all’acquisto della Tegola di Capua.

Fu così che il secondo testo etrusco per lunghezza e importanza poté tranquillamente emigrare a Berlino, dove si trova ancora oggi, nonostante i tempi fossero allora già maturi per considerarlo una prova schiacciante a favore della tradizione, come di fatto poi avvenne pochi mesi dopo la sua esportazione.
Eppure il celebre storico greco Polibio ancora nel II secolo a.C., quando l’ombra della loro egemonia era ormai da diversi secoli tramontata, aveva potuto affermare senza alcuna esitazione che “chi vuol conoscere la storia della potenza degli Etruschi non deve riferirsi al territorio che essi possiedono al presente, ma alle pianure” (2, 17, 1-2) da loro un tempo dominate, quella Padana e quella Campana. Una posizione confermata nella sostanza da tutte le fonti disponibili e di cui vi era eco anche negli autori latini, da Catone il Censore (in Serv., Aen. 11, 567) a Tito Livio (1, 2; 5, 33), il quale ricordava come dal Tirreno all’Adriatico e dalla Campania alla Lombardia: “In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat” (“Quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi”).

L’archeologia ha da tempo confermato la correttezza delle intuizioni polibiane evidenziando come la grandezza degli Etruschi sia dipesa, almeno sin dal X secolo a.C., anche dal controllo delle risorse di queste vaste pianure e delle importanti vie commerciali che le attraversavano seguendo e sfruttando i guadi e le fertili valli fluviali che ne scandivano il paesaggio.

La mostra mira a restituire al pubblico un’idea, da un lato, delle testimonianze lasciate dagli Etruschi in Campania (I Sezione) e, dall’altro, di come la riscoperta del passato etrusco della regione e del suo rapporto dialettico con la Magna Grecia abbiano appassionato sin dal tardo Rinascimento generazioni di intellettuali, incoraggiandoli a sviluppare nuovi metodi di indagine per svelare un enigma storico, profondamente radicato nell’identità culturale del Mezzogiorno, che solo al principio del XX secolo l’archeologia avrebbe risolto, dando finalmente un volto e una consistenza alla potenza etrusca (II Sezione).

Due prospettive narrative che, come si cercherà di evidenziare approfonditamente nelle pagine che seguono, sono tra loro fortemente interrelate e sono state oggetto di ampia trattazione nei saggi che compongono le due parti in cui si articola il presente catalogo, strutturate in modo tale da costituire un complemento concettuale al percorso espositivo.
Quest’ultimo è stato volutamente ideato e organizzato attingendo quasi esclusivamente a materiali inclusi nelle raccolte del MANN, in modo tale da valorizzare, per quanto possibile, i suoi straordinari depositi, rivelatisi una miniera quasi inesauribile non solo per la ricostruzione delle vicende più direttamente legate alla presenza / influenza degli Etruschi nella / sulla regione, ma anche per la ricomposizione del ben più complesso processo euristico che ha portato alla riscoperta della loro rilevanza culturale nella storia nazionale in generale e in quella del Mezzogiorno in particolare, sin dalle prime celebri intuizioni di Giambattista Vico sull’“antichissima sapienza degli Italici”.

Il racconto ha potuto pertanto dipanarsi idealmente in modo tale da esplorare non solo l’evoluzione del gusto collezionistico come si è nel tempo più o meno direttamente riflesso attraverso gli allestimenti di quello straordinario epicentro culturale che è stato ed è ancora il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, erede ed espressione di una tradizione intellettuale secolare, ma si è di fatto prestato anche a ripercorrere alcune tappe fondamentali dell’evoluzione metodologica dell’archeologia che proprio in Campania e proprio in rapporto al problema dell’identificazione degli Etruschi ha dato saggi di straordinaria rilevanza sui quali la critica, a nostro avviso, non si è ancora adeguatamente soffermata. Come dimostrano, ad esempio, le precocissime attestazioni delle potenzialità del metodo stratigrafico per l’indagine etnostorica, ben testimoniate dall’esperienza per molti versi ammirevole di Pietro Vivenzio tra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX secolo.

EtruscoMANNia
La sfida, tuttavia, non è stata affatto facile e solo la strenua determinazione del direttore del MANN Paolo Giulierini, congiunta con l’ammirevole dedizione di tutto il personale del Museo magistralmente supportato da Electa, hanno consentito che questo ambizioso progetto potesse essere realizzato. Un attento “scavo” nei depositi ha permesso di valorizzare – molto spesso per la prima volta – importanti nuclei collezionistici, o di inserire in un discorso diacronico e contestuale complesso e articolato nuclei storici di eccezionale rilevanza come la celebre Collezione Borgiana, acquisita a suo tempo proprio al fine di dotare il Museo di un tassello fondamentale della catena delle arti delineata da Winckelmann, come ha assai ben evidenziato in questa e altre sedi Andrea Milanese.

Per la prima volta si è inoltre cercato di dare rilevanza a oggetti minori o considerati tali perché entrati silenziosamente nelle raccolte del Museo, senza quell’apparato di informazioni relative al loro contesto di provenienza ormai considerato imprescindibile per ogni indagine archeologica che sia degna di questo nome. La ricerca compiuta nei depositi per rintracciare quanto di etrusco vi fosse conservato è andata infatti in un certo senso a ripercorrere quella effettuata alla fine dell’Ottocento da Giovanni Patroni nel tentativo di cancellare ogni dubbio residuo relativo alla presenza degli Etruschi in Campania.

La ricomposizione in una vetrina della prima sala della tavola con la quale si illustravano nel suo contributo del 1901 i buccheri campani del MANN costituisce, dunque, non soltanto un ideale tributo alla sua opera, ma anche la riproposizione materiale di quello che a pieno titolo – nonostante qualche comprensibile ingenuità – può essere considerato il primo atto della moderna indagine scientifica sugli Etruschi in Campania.

Una riscoperta che, in virtù delle conquiste dell’archeologia del Novecento, ha di fatto relegato nel dimenticatoio i reperti decontestualizzati dei nuclei collezionistici più antichi. Grazie a questa mostra, dunque, molti oggetti tornano per la prima volta a essere ammirati dal pubblico, insieme a tutte le altre acquisizioni di materiali provenienti dall’Etruria propria (Lazio settentrionale e Toscana), compiute a partire dalla seconda metà del Settecento – da quando Carlo III acquistò per il Real Museo da Domenico Agarini il bronzetto d’offerente rinvenuto nel 1764 presso Rio, nell’isola d’Elba – e poi per tutto il corso dell’Ottocento, per dare alle raccolte del Museo quella completezza cui era lecito ambire e fornire, al contempo, adeguati riscontri per quanto continuava a venire alla luce nel Regno.

Si tratta, ovviamente, soltanto dell’inizio di un percorso conoscitivo che, grazie all’imponente lavoro avviato negli ultimi anni, presto porterà a una più compiuta conoscenza di tutte le storie che sono ancora racchiuse nelle vetrine, negli archivi e nei depositi del più importante Museo del Mezzogiorno e, conseguentemente, di uno dei maggiori templi dell’archeologia mondiale.
Sento il dovere / piacere in chiusura di esprimere i miei più vivi ringraziamenti in primis all’amico e collega Paolo Giulierini che, come solo lui sa fare, ha reso possibile questa straordinaria esperienza di ricerca e valorizzazione presso una delle strutture museali cui sono maggiormente legato dal punto di vista professionale e da quello umano, sin dai trascorsi napoletani della mia più remota infanzia.. (03/07/2020-ITL/ITNET)

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