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IMMIGRAZIONE - IL PUNTO DI FRANCESCO BASCONE (ASPENIA): I FLUSSI MIGRATORI AFRICANI. LA GRANDE SFIDA EUROPEA

(2017-07-14)

  Francesco Bascone già ambasciatore italiano nella Repubblica Serba ed a Cipro - oltre che rappresentante OSCE, docente in Mtodologia delle Relazioni Internazionali all'Università di Trieste dal 2009, in una riflessione su Aspenia la rivista del think Thank Italia/Usa diretta dall'ex Sottosegretaria agli Affari Esteri Marta Dassu', affronta la questione - niente affatto congiunturale - dei flussi migratori dall'Africa, che rappresentano "la grande sfida per l'Europa"

Afferma Francone "Nel 2015 l'arrivo intenso e concentrato di rifugiati dai conflitti nel Vicino e Medio Oriente, diretti soprattutto verso Germania e Svezia, si è imposto all'attenzione dei media e delle cancellerie europee. Ciò ha messo in ombra un fenomeno ancora più massiccio e di più lunga durata, che già da alcuni anni colpisce in primo luogo l'Italia: l'esodo dall'Africa centrale e subsahariana, che per certi versi ci ricorda l'emigrazione di decine di milioni di europei verso le Americhe durante la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo.

Anche allora si fuggiva da disoccupazione, fame, pogrom, e molti perivano durante la traversata, benché non fosse illegale né gestita (almeno non in larga misura) da clan criminali. La principale differenza è che i paesi di destinazione vivevano l'immigrazione di massa non come crisi ma come un arricchimento, grazie a fattori oggi irripetibili: primo, i vasti spazi vuoti che attendevano di essere colonizzati e sviluppati; secondo, l'operosità di quei migranti, tedeschi, ebrei soprattutto est-europei e russi, italiani etc, vista come una risorsa per i paesi di accoglienza e non come un peso per i loro (ancora inesistenti) sistemi assistenziali. Vale la pena ricordare che anche in quel contesto ci furono comunque tensioni periodiche e resistenze contro l’afflusso di ogni nuova “ondata”, in particolare riguardo a irlandesi e italiani per ragioni in parte legate alle loro radici cattoliche, in forme ed episodi che ricordano molto la fase attuale.

In ogni caso, i numeri furono davvero impressionanti: se consideriamo che la sola Italia ha contribuito con oltre venti milioni di emigranti (500-800mila l'anno all'inizio del Novecento) a cambiare la composizione etnica degli Stati Uniti e dell'America Latina, ci rendiamo conto dell'ordine di grandezza dell'emigrazione potenziale dall'Africa di oggi – un continente che conta circa 1,2 miliardi di abitanti.

E l'ex ambasciatore avverte "Il flusso attuale, che già mette a dura prova la nostra capacità di accoglienza, è una piccola frazione di quello potenziale, perché frenato dalla duplice barriera – sormontabile ma a costo di sofferenze e rischi per la vita – costituita dal Sahara e dal Mare Mediterraneo; nonché dal costo esoso del servizio fornito dai trafficanti.
Lo spettacolo di quelle sofferenze  spinge alcuni – leader,  opinion-maker, pubblico – a vedere l'immigrazione illegale essenzialmente come un problema umanitario, accantonando del tutto la distinzione  fra profughi e migranti “economici” che fino a ieri offriva una formula apparentemente equilibrata fra imperativo etico e difesa delle frontiere. Questo partito dell'accoglienza si oppone, ad esempio, anche ai rimpatri e alla cooperazione con le autorità libiche per il contenimento degli imbarchi, giudicando immorale ricacciare chi ha già molto patito nelle mani dei suoi aguzzini.

Un'altra parte dei media e dei politici (quelli tendenti “a destra”) mette invece in primo piano le crescenti difficoltà che incontrano i comuni a trovare alloggi e sostenere le spese per i richiedenti asilo loro assegnati, il malcontento dei cittadini che vedono dirottate sugli stranieri risorse già insufficienti. Si sottolineano poi le insidie del multiculturalismo e i pericoli percepiti per la sicurezza.

Indipendentemente da chi riteniamo essere nel giusto (ma la ragione in genere non è da una parte sola), le due posizioni tendono a divaricarsi sempre più. Di conseguenza, accanto ai costi dell'accoglienza e della successiva integrazione, dobbiamo mettere in conto il grave effetto divisivo nelle società e nella dialettica politica in seno ai singoli paesi di immigrazione, a cominciare dall'Italia. Se alla fine di giugno il governo Gentiloni ha lanciato un grido di allarme e prospettato misure drastiche non è solo perché le statistiche per la prima metà del 2017 hanno fatto registrare un significativo aumento rispetto al 2016 (+46% per le domande di asilo), e molti comuni hanno avvertito di aver raggiunto il punto di saturazione, ma anche perché le elezioni amministrative di giugno hanno segnalato un rafforzamento dei partiti anti-immigrazione.

Un analogo potenziale conflittivo è già visibile nell'ambito dell'Unione Europea nel suo complesso. Da un lato l'Italia si lamenta, giustamente, di essere lasciata praticamente sola a fronteggiare il crescente afflusso di boat people, reclama il superamento del Regolamento di Dublino (per cui le responsabilità amministrative e della prima accoglienza spettano al Paese di accesso) e rimprovera ai partner di non aver attuato se non in minima parte il pur modesto piano di redistribuzione (“resettlement and relocation”) concordato nel 2015. Dall'altro i paesi dell'Europa centro-orientale di recente adesione fanno valere che ogni stato membro deve far fronte ai problemi inerenti alla sua collocazione geopolitica, e che comunque eccessive pressioni non farebbero che aggravare la deriva populista ed euro-scettica nei loro elettorati; non nascondono poi che la priorità data dall'Italia al salvataggio e all'accoglienza rispetto alla protezione delle frontiere produce effetti di cui essi non sono disposti a condividere il peso.

Nel mezzo, Germania e Francia, affiancati dalla Commissione, manifestano a parole solidarietà verso l'Italia, ma non sono finora stati in grado di smuovere i paesi meno cooperativi. La Cancelliera Angela Merkel ha almeno cercato di dare il buon esempio in tema di relocation, promettendo (in contrasto con l'atteggiamento austriaco) di accogliere altri  migranti da Italia e Grecia. Il Presidente francese Emmanuel Macron ha invece gelato il governo Gentiloni, rispolverando la distinzione fra veri rifugiati e “migranti economici” e restringendo la solidarietà ai primi, che sarebbero al massimo il 20% (15% secondo il nostro premier). Fra governi amici non si polemizza su passate responsabilità, tuttavia se a Parigi si ricordasse  chi prese la scellerata iniziativa di abbattere il regime libico di Mu’ammar Gheddafi  (cui l’allora governo Berlusconi si accodò dopo molte resistenze), si sentirebbe in dovere di fare uno sforzo particolare per aiutare l'Italia.

Riassumendo, il problema dei migranti  non può essere posto solo in termini di vite perse in mare, o di spesa pubblica che giustifica un aumento del deficit, né di fornitura di manovalanza alla criminalità, o di ”paura del diverso” (xenofobia). Va anche visto come causa di un approfondirsi di pericolosi fossati sia all'interno dei singoli paesi europei sia fra di essi, e come fattore di crescita di nazionalismi anti-democratici (per non parlare di possibili futuri conflitti interni fra maggioranze laiche e forti minoranze islamiste).

Va dunque affrontato in un'ottica di containment, e appare irresponsabile l'atteggiamento di chi vede le grandi migrazioni come il lievito del progresso umano. Una posizione assimilabile a quella di chi sostiene che il “riscaldamento globale” (e non solo di qualche grado) fa parte della storia del pianeta e non va quindi contrastato; o a quella del filosofo tedesco Friedrich Hegel, che definiva la guerra “la levatrice della storia”. Preferiamo fare a meno di simili levatrici.

I leader riuniti nel Consiglio Europeo sono ben consapevoli della necessità di contenere il fenomeno (nei documenti più recenti non si esita più a usare l'espressione “to stem the flow”), pur badando a non apparire egoisti o insensibili ai problemi delle popolazioni africane. La stessa Cancelliera Merkel, osannata e criticata per aver incoraggiato nel 2015 l'afflusso di profughi da Siria e Iraq (ma che altro poteva fare, trattandosi per lo più di autentici rifugiati, e dovendosi in qualche modo evacuarli dalle isole greche?) e accolto un milione di richiedenti asilo in un anno, ha poi parlato di protezione delle frontiere, beneficiato della chiusura della rotta balcanica da parte di Macedonia, Serbia e Ungheria, e patrocinato l'accordo con la Turchia per arrestare il flusso a monte.

Se molte ONG predicano ancora il dovere morale di accogliere chi fugge non solo da persecuzioni e dagli orrori della guerra ma anche da povertà e disoccupazione, i governi sono ormai concordi nel voler ridurre quanto possibile i flussi migratori dall'Africa, salvo a far prevalere criteri umanitari nei confronti di chi si trova già di fronte alle coste europee o in alto mare (un colpo al cerchio e uno alla botte, ma è inevitabile). Ma come, in concreto ridurre quei flussi?

Alla ricerca di risposte europee

Nell'Agenda Europea sulle Migrazioni (documento della Commissione del maggio 2015) e relativo Action Plan, come nelle più recenti dichiarazioni del presidente Jean-Claude Juncker e del commissario Dimitris Avramopoulos, figurano accanto a strategie di lungo periodo – da cui non ci si può attendere sollievo alla attuale crisi – anche azioni più dirette, in parte di natura coercitiva.

Della prima categoria fa parte il mantra “to address the root causes”, che a lungo è stato messo in primo piano. La Commissione ha stanziato 2,6 miliardi di Euro per l'Africa Trust Fund, ed esorta i paesi membri ad incrementare i loro contributi volontari: attraverso programmi di assistenza allo sviluppo e incoraggiando gli investimenti privati, si spera – o si fa finta di sperare – di attenuare lo stimolo all'emigrazione. In realtà gli investimenti sono quasi sempre capital-intensive, incidono cioè in misura trascurabile sulla disoccupazione; e i corsi di addestramento professionale, sempreché efficaci, formano tecnici che non saranno più disposti ad accontentarsi dei miseri salari locali, e decisi invece ad affrontare disagi, spese e rischi per immettersi nei ricchi mercati del lavoro europei e nordamericani. E anche qualora preferissero invece restare a lavorare, mal pagati, in patria, il loro posto sui camion dei trafficanti verrebbe preso da connazionali che non hanno nulla da perdere. La spinta all'emigrazione è limitata solo dalla capacità di trasporto di cui dispongono i contrabbandieri, e dalle eventuali misure repressive messe in atto a sud e a nord del Sahara.

Nella seconda categoria rientra, appunto, la collaborazione dei paesi di origine e di transito per ostacolare l'esodo. Questa ha per essi un costo in termini di impopolarità e di conflitti con tribù che vivono dei traffici di persone, che va compensato mediante sostanziose sovvenzioni, in aggiunta all'addestramento  e al materiale forniti alle polizie e forze armate. Meglio ancora se i programmi di assistenza sono adatti a produrre tangenti per i politici o guadagni per il loro entourage.  Sia Bruxelles che Roma hanno negoziato intese con tre paesi del Sahel – Ciad, Niger e Mali – al fine di rendere meno poroso il confine meridionale della Libia, ma i risultati sono dubbi e certo non immediati

L'efficacia di simili azioni di contenimento dipende non solo dai suddetti incentivi e dalla capacità delle autorità locali di lottare contro la corruzione, ma anche dalla conformazione del terreno, niente affatto propizia nel caso del Sahel-Sahara. Con la Turchia ha funzionato, grazie anche alla barriera, sia pur relativa, costituita dal mare; altrettanto dicasi per il Marocco, la cui energica collaborazione viene pubblicizzata il meno possibile dalla Spagna.

L'anarchia che sconvolge la Libia da sei anni priva l'Italia di un analogo scudo. Bruxelles promette di migliorare il coordinamento con la guardia costiera libica e di “smantellare le reti dei trafficanti”. Ciò presupporrebbe l'esistenza di uno stato libico in grado di esercitare un'autorità effettiva sul territorio e sulle acque adiacenti, o accordi solidi con le singole milizie e la loro rinuncia ad ogni collusione con i contrabbandieri di esseri umani. L'interesse nazionale ci imporrebbe perciò di puntare prioritariamente ad una stabilizzazione della Libia, a tutti i costi e non in base a principi astratti: sostenendo il governo legittimo di Fayez al-Sarraj se in grado di rafforzarsi, o invece il parlamento di Tobruk e il generale Khalifa Heftar se appare destinato ad imporsi grazie all'aiuto egiziano, o infine la spartizione se si rivelasse inevitabile.

Un'altra misura coercitiva che dovrebbe alleviare il fardello dell'Italia senza pesare sui partner europei, e al tempo stesso avere effetti dissuasivi, è il rimpatrio di coloro che non hanno diritto all'asilo, finora attuato solo in modo sporadico. Al riguardo la Commissione ha in passato optato per una politica soft: la citata Agenda Europea propugnava una “humane and effective return and readmission policy”, efficace ma anzitutto umana; ora sembra propendere piuttosto per l'efficacia,  ha infatti raccomandato all'Italia  di migliorare le procedure e le strutture, in modo da decidere con maggior rapidità e rigore  sulla concessione o meno dell'asilo ed attuare effettivamente le decisioni negative – e ciò comporta anche l'aumento delle capacità dei luoghi di detenzione e la durata massima.

I rimpatri forzati presuppongono la negoziazione di accordi di riammissione; l'UE ne ha conclusi con un certo numero di paesi, fra cui uno solo dell'Africa sub-sahariana (Capo Verde). La Commissione si rende ora conto che occorre perseguire quell'obiettivo più energicamente, “using all possible levers and incentives” (anche più chiaramente il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha accennato al bastone e la carota: “both positive and negative leverages”). La Commissione prevede inoltre l'invio di “European return intervention teams” per i rimpatri forzati via aerea.

Fare sul serio sui rimpatri, e in tal modo smorzare il  pull effect prodotto dalle telefonate di quelli che “ce l'hanno fatta”, richiede uno sforzo per accorciare drasticamente  i tempi di trattazione delle domande di asilo. Se il diniego arriva dopo 1-2 anni, a parte il costo non indifferente sostenuto dallo Stato per il mantenimento, l'immigrato avrà iniziato ad affondare le radici nel paese, avrà forse figli a scuola e occupazioni saltuarie; e comunque sarà più restìo a ottemperare all'ordine di rimpatrio. Pochi resistono alla tentazione di far perdere le proprie tracce nel lasso di tempo concesso per presentare ricorso.

Nel 2016 la Commissione di Bruxelles ha presentato  proposte di miglioramento del Common European Asylum System. L'impostazione tradizionale mette in primo piano l'importanza di “alti standards di protezione dei rifugiati”, un trattamento  open and fair, il ricorso all'arresto solo  come“last resort”; anche se auspica una armonizzazione fra i vari paesi membri per evitare l'asylum shopping. Recentemente l'accento è stato invece messo sulla necessità di “evitare abusi”; e, come accennato, viene raccomandato all'Italia di semplificare e accelerare le procedure, fra l'altro ricorrendo alla presunzione di mancato diritto all'asilo in base ad elenchi di paesi sicuri, e addirittura di fare maggior ricorso alla detenzione.

Per aiutare i paesi membri del fianco meridionale a proteggere le frontiere marittime comuni, l'Unione ha affidato a Frontex (l’agenzia europea di controllo delle frontiere, certo non un colosso in termini di risorse) l'operazione Triton – tuttora in corso. Un compito reso praticamente irrealizzabile da un paradosso: le stesse navi incaricate di pattugliare quelle frontiere per frenare gli sbarchi hanno il dovere di soccorrere i migranti in difficoltà; per prevenire i naufragi devono spingersi in alto mare, e anzi avvicinarsi alle coste nord-africane; e se non lo fa Frontex ci pensano le ONG. I trafficanti ne approfittano per far salpare imbarcazioni sempre più stipate e prive di acqua e carburante sufficienti per la traversata, e gli europei sono costretti a spingere ancora più a Sud le operazioni di salvataggio. In tal modo i contrabbandieri di esseri umani vedono aumentare la produttività e diminuire i rischi delle loro operazioni; non hanno più neanche bisogno di far salire proprio personale a bordo dei gommoni.

Anche se le accuse di complicità rivolte alle ONG sono ingiuste e malevole (salvo forse qualche caso marginale, segnalato dalla stessa Frontex), la loro attività umanitaria, di per sé lodevole, crea un moltiplicatore al traffico, fa crescere il fatturato delle organizzazioni criminali (che attualmente l'UE stima in 4 miliardi di euro l'anno) e incoraggia i migranti ad affrontare la traversata.

Prese le misure di questo moltiplicatore, e constatato che la proclamata solidarietà dei partner comunitari è uno stato d'animo che non si traduce in azioni concrete (se si prescinde dagli aiuti logistici e finanziari della Commissione), l'Italia ha tirato il freno di emergenza, minacciando di vietare l'approdo alle navi delle ONG per spingerle (in primo luogo quelle francesi e spagnole) a sbarcare i migranti da esse raccolti nei propri porti. La legittimità di una simile misura in diritto internazionale è oggetto di controversia, ma in situazioni considerate di emergenza è generalmente ammesso che gli stati adottino provvedimenti eccezionali.

I partner, a parole, hanno mostrato di non essere insensibili al “grido di dolore” italiano. La presidenza estone ha convocato una riunione dei Ministri dell'Interno a Tallinn, che si è tenuta il 6 e 7 luglio (preceduta da un incontro italo-franco-tedesco a Parigi il 2 luglio). Ha proclamato che “l'Italia non va lasciata sola”, messaggio fatto proprio dalle altre delegazioni. Ma ha messo l'accento più sulle politiche miranti a frenare l'esodo che sulla ripartizione del fardello, o burden-sharing. Non sono state decise misure concrete, il che si spiega con il carattere informale della riunione. Ma sono anche mancate chiare indicazioni di una volontà di procedere urgentemente all'attuazione delle intese sulla relocation e alla revisione dell'accordo di Dublino, che scarica tutte le responsabilità sul paese di primo approdo. Francia e Spagna hanno respinto l'ipotesi di costringere le proprie ONG a sbarcare  nei propri porti le persone salvate.

Un passo positivo (dal punto di vista del Governo, non certo delle organizzazioni umanitarie) è la raccomandazione fatta dalla Commissione di adottare un codice di condotta per le attività di salvataggio in mare delle ONG, la cui redazione verrebbe affidata all'Italia. Se la proposta venisse approvata, otterremmo almeno un palliativo, in quanto le operazioni delle ONG verrebbero complessivamente rallentate e rese più costose. Le loro navi potrebbero infatti essere sottoposte al divieto di prelevare i migranti nelle acque territoriali libiche (o in prossimità di esse) e di trasbordarle sulle unità della guardia costiera; essere costrette in caso di violazioni ad approdare nei propri porti; o venire dirottate in caso di necessità verso porti dell'Italia centrale.

In sostanza, il clima politico europeo sembra far sperare che si possa venire finalmente incontro alle giustificate richieste italiane di burden-sharing: un sistema permanente di redistribuzione (non una relocation una tantum) e il superamento della regola di Dublino. Una volta che tutti i partner iniziassero a sentire il peso dell'accoglienza di consistenti numeri di migranti extra-europei, migliorerebbero le prospettive di una decisa azione congiunta per indurre i paesi di origine e di transito a collaborare fattivamente nel frenare l'esodo." conclude l'ex ambasciatore Francone.(14/07/2017-ITL/ITNET)

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