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LAVORO - 50mo INCONTRO STUDI ACLI: CATTIVA OCCUPAZIONE E ALTERNATIVE MESSE IN CAMPO DAI GIOVANI IN ITALIA PER TENERSI COMUNQUE IL LAVORO. MA ALL'ESTERO....

(2017-09-12)

  Proseguendo nel cammino della ricerca presentata oggi dall'IREF-ACLI sul lavoro,  la cui anteprima (http://www.italiannetwork.it/news.aspx?ln=it&id=48545)  è stata presentata oggi a Roma dalle ACLI in vista del 50.mo incontro di studi che si svolgerà a Napoli il 14 e 15 settembre, lo studio affronta la risposta - le risposte - dei giovani al "cattivo" lavoro.

Prima opzione: Il lavoro “in deroga” per affrontare la cattiva occupazione assecondando le esigenze dei datori di lavoro, che “potrebbero” garantire il mantenimento del posto di lavoro. Si tratta di deroghe, più o meno volontarie, rispetto agli standard normativi e contrattuali: lavorare di più, rinunciare alle ferie, essere disposti a lavorare anche nei festivi e così via, sino ad arrivare alla situazione più estrema, al completo svuotamento del rapporto di lavoro, in favore di un mero scambio tra prestazione e denaro, ovvero lavorare “in nero”. Il tutto per mantenere il lavoro.

La ricerca esamina le due forme che può assumere il lavoro “in deroga”. Una prima forma è funzionale al mantenimento dell’occupazione; la seconda, invece, ha come obiettivo il raggiungimento di una posizione lavorativa gradita, perché coerente con il percorso di studi, le proprie aspettative e preferenze.

Diritti in sospeso: il lavoro “in deroga” in funzione del mantenimento dell’occupazione Per almeno due generazioni di lavoratori, l’idea che si possa derogare rispetto ai diritti è inammissibile, tuttavia la crisi economica ha costretto tanti lavoratori ad accordi al ribasso, concessioni, rinunce e sacrifici. Si è andata diffondendo l’idea che quando il lavoro manca o è a rischio si possa e, per alcuni, si debba accettare qualsiasi cosa. La domanda che ci poniamo è quanto la cultura del “lavoro in deroga” sia penetrata nell’immaginario lavorativo dei giovani. Per rispondere, abbiamo sollecitato gli intervistati tramite due domande proiettive.

Nella prima si ipotizzava di rimanere disoccupati per più di un anno . In una situazione del genere, le alternative sono sostanzialmente due: la mobilità o il lavoro “in nero”, entrambe queste opzioni ottengono il 35%, o più, delle preferenze. Le altre opzioni come ad esempio la formazione, continuare con la ricerca del lavoro, aspettare ancora che si presenti una buona occasione non sono praticabili.

Il secondo indicatore di propensione al lavoro “in deroga” è più articolato e ipotizza una situazione di imminente licenziamento, chiedendo agli intervistati a cosa sarebbero disposti a rinunciare pur di mantenere il posto di lavoro . Spicca il fatto che solo il 32,8% del campione ritiene sia meglio farsi licenziare piuttosto di rinunciare ai propri diritti. Due intervistati su tre, invece, sarebbero disposti a fare una qualche concessione: il 27,6% rinuncerebbe ai festivi, il 16,7% alle ferie, il 12,4% a una parte dello stipendio e il 10,5% ai giorni di malattia.
  Dunque buona parte dei giovani intervistati sembra aver fatto propria la considerazione di senso comune per la quale di questi tempi l’importante è tenersi il lavoro, il resto conta poco.

Per esplorare più nel dettaglio la cultura del lavoro “in deroga” è opportuno combinare i due indicatori di base creando un indice di propensione a tre posizioni (alta, media, bassa) e verificando le interazioni con variabili individuali e di atteggiamento.
La maggiore propensione al lavoro in deroga si riscontra tra i giovani italiani non laureati che vivono per contro proprio (37,7%) e, in second’ordine tra i non laureati che vivono in famiglia (30,7%). Al contrario, tra gli expat in pochissimi presentano un’alta propensione (11,3% e 12,2%) e si perde anche l’effetto del titolo di studio, per cui tra laureati e non ci sono poche differenze.

Se poi si passa ad analizzare i gruppi nei quali sono presenti più soggetti con una bassa disponibilità a fare deroghe sul lavoro si trova una conferma numericamente molto forte della profonda differenza di vedute tra i giovani che vivono in Italia e quelli che invece si sono trasferiti all’estero: questi ultimi infatti hanno in più del 40% dei casi una bassa propensione al lavoro in deroga.

Limitandosi alla dimensione biografica è abbastanza semplice interpretare questi dati: i giovani italiani hanno formato la loro opinione in un contesto che penalizza in modo sistematico il lavoro giovanile. Che abbiano avuto o meno esperienze professionali, hanno quantomeno vissuto in anni nei quali il ritornello “il lavoro bisogna saperselo tenere” è circolato, in modo più o meno esplicito, in molti settori della loro vita sociale (in famiglia, tra gli amici, ma anche sui media).

LA cultura della precarieta'
In questo senso, la disponibilità a derogare sui diritti e al “lavoro nero” sembra essere parte di una più generale cultura della precarietà, alla quale i giovani degli anni ’90 sono stati socializzati durante la loro crescita: a forza di sentirsi ripetere che trovare lavoro è difficile hanno fatto propria l’idea che lo spettro della disoccupazione vada scacciato mettendo da parte la questione dei diritti.

I giovani all’estero pur avendo ricevuto gli stessi stimoli negativi hanno, presumibilmente, fatto esperienza di un mercato del lavoro che funziona con logiche differenti, nel quale la disoccupazione è un’eventualità ma non una condanna.

Il lavoro “in deroga” si associa dunque a una rappresentazione del lavoro virata in negativo, nella quale le persone non possono fare altro che conformarsi alle regole del gioco, per quanto perverse esse siano, a meno di aver risorse familiari tali da permettere di tirarsi fuori. Non sorprende quindi scoprire che il 48% dei giovani con un’alta propensione al lavoro in deroga affermi che oggi non c’è modo di difendere il proprio posto di lavoro (sul totale del campione il dato è dieci punti più basso 39,6%.

Il problema, secondo una parte degli intervistati, è la concorrenza in un contesto di disuguaglianze: non tutti hanno le stesse risorse per cui la competizione è falsata: ciò, a torto o a ragione, genera risentimento, rancore e, per inciso, non può che avere un effetto negativo sulla fiducia interpersonale fuori e dentro l’ambiente di lavoro.

I ragazzi degli anni ’90 hanno elaborato una visione del mondo del lavoro contrassegnata da un crudo realismo: per lavorare bisogna essere disposti a fare compromessi ed accettare le regole del gioco, che per quanto ingiuste, sono inaggirabili. Prendere o lasciare, questo si sono sentiti ripetere dai datori di lavoro e si sono regolati di conseguenza.
Agli occhi degli adulti tutto ciò può apparire come depauperamento e svilimento della cultura del lavoro e dei diritti, ma se ci si mette nei panni di una  generazione nata e cresciuta in un contesto di precarietà diffusa, bisognerebbe essere abbastanza lucidi da chiedersi quali siano i tratti ancora riconoscibili di questa cultura del lavoro?

Una nuova etica del lavoro?

Il lavoro “in deroga” in funzione del progetto professionale n funzione del progetto professionale La seconda forma di lavoro “in deroga” è finalizzata al raggiungimento di una meta professionale, definita, in modo molto semplice, con l’espressione “il lavoro che mi piace”.

Le deroghe ipotizzate sono di diverso genere: orari di lavoro più lunghi della media, lavoro da casa e nel tempo libero, retribuzione minima e addirittura il lavoro gratuito. Tutte situazioni che tendono a essere sempre più diffuse soprattutto in alcuni settori professionali come ad esempio le industrie creative e dell’intrattenimento, il mondo della ricerca e dell’arte, il terzo settore e il lavoro sociale e, in genere, l’economia di internet.
Queste forme di (auto)sfruttamento sono caratteristiche anche di alcune posizioni lavorative specifiche, come ad esempio, gli stage, ma più in generale si manifestano nella prima fase della carriera di un giovane. Un tempo la si sarebbe chiamata “gavetta”, tuttavia la differenza con la situazione contemporanea è che la promessa di veder ripagati i sacrifici spesso viene tradita e i giovani si ritrovano intrappolati in una condizione estremamente precaria.
Per fare il lavoro dei sogni  il 43,4% degli intervistati sarebbe disposto a lavorare molte ore più degli altri e il 41,9% a lavorare anche da casa, il 38% occuperebbe anche il proprio tempo libero pur di raggiungere la propria meta professionale. Le forme più forti di deroga riguardano quindi gli orari di lavoro ed evidenziano che una forte propensione a quella che viene chiamata domesticizzazione, ossia “l’assorbimento del lavoro nel sistema di regole della vita privata”.

La seconda forma di deroga è di ordine salariale: il 34,6% degli intervistati sarebbe disposto a essere pagato poco, il 33,2% a lavorare gratis per un periodo. Anche la disponibilità a offrire lavoro gratuito è abbastanza alta e riguarda circa un intervistato su tre. Relativamente minore (23,5%) è invece la quota di giovani che si dichiarano disposti a lavorare anche di notte. Infine, solo un giovane su dieci si dichiara indisponibile a qualsivoglia concessione. In generale, i dati mostrano che il movente espressivo e la soddisfazione personale sono un potente meccanismo di deroga: al fine di perseguire un progetto professionale specifico i giovani si rendono disponibili ad assecondare le pressioni che provengono da un mercato del lavoro nel quale i processi di gratuizzazione del lavoro sono sempre più diffusi.

Tirocini, stage, periodi di prova, training on the job sebbene siano regolati da specifiche normative, possono sconfinare nel lavoro gratuito o quasi-gratuito. In questi casi, opera un circuito di rinforzo nel quale il datore di lavoro, erroneamente, considera il tirocinante o lo stageur un lavoratore a tutti gli effetti; a sua volta, la persona si comporta come tale, allettata dall’idea che al termine del periodo di training il rapporto si possa trasformare in un lavoro “vero”.
Il circuito si basa su quella che può essere definita “economia della promessa”: il pagamento in denaro di una prestazione è solo una delle forme della retribuzione. L’altra è la promessa “di futuri guadagni e di uno status spendibile nel presente”. Oggi si può essere pagati con la promessa di essere stabilizzati in un ufficio pubblico, o in una cattedra a scuola o all’università, nel lavoro culturale. Oppure con la promessa di ottenere “visibilità” e “contatti” utili per una commessa o un futuro “lavoretto”.

L’economia della promessa, oltre che sul differimento temporale del “premio”, si basa anche sulla cosiddetta “trappola della passione”, ossia sul forte motivazione personale del lavoratore, il quale vede in quell’impiego specifico una metà fondamentale per la propria vita, il coronamento di un percorso personale e formativo, il raggiungimento di uno status inseguito da tempo: non è un caso che la trappola della passione agisca con maggiore forza tra i giovani con titoli di studio terziari, il caso emblematico sono le carriere universitarie precedute da anni di lavoro non
retribuito.

L’obbedienza preventiva come strategia di fronteggiamento nel mercato del lavoro amento nel mercato del lavoro La de-standardizzazione del lavoro è una realtà consolidata e tendenzialmente stabile e i giovani questo lo sanno. Lo hanno imparato grazie a due decenni di socializzazione al precariato, avvenuta in famiglia, a scuola, sui mezzi di comunicazione. Ad essere rilevante, almeno in termini analitici, è il contesto nel quale è agita la deroga.

Da una parte, la deroga ha una funzione difensiva: si fanno delle concessioni con lo scopo di difendere il proprio posto di lavoro; dall’altra, la deroga è agita nel contesto di un progetto professionale, con l’obiettivo, al netto delle promesse tradite, di chiudere il cerchio tra formazione e lavoro o di fare semplicemente il lavoro che piace o fa stare bene. È dunque interessante verificare se a prevalere sia la componente difensiva o quella pro-attiva.
Per fare ciò, è utile passare dal concetto di deroga, troppo vicino a una situazione concreta, a quello di “obbedienza preventiva”. Con questa espressione, vogliamo identificare come la cultura della precarietà abbia nel corso degli anni esercitato un potere tale da modificare gli atteggiamenti e i significati associati dai giovani (ma non solo) al lavoro, come in una sorta di imprinting precario.

La precarietà è talmente incorporata nelle vite dei giovani, da far loro accettare in maniera preventiva le penalizzazioni del mercato del lavoro.

  Tuttavia, l’obbedienza può essere anche una relazione strategica, con una funzione produttiva, poiché permette di capire quali sono gli spazi d’azione e le risorse disponibili. In altre parole, ogni forma di assoggettamento e di obbedienza ha in sé un potenziale di soggettivazione e di azione. Sotto il profilo analitico, sono state individuate quattro le strategie di fronteggiamento delle difficoltà occupazionali, combinando due indici di lavoro in deroga.

- Disobbedienza preventiva: questa strategia accomuna l’11,7% del campione e non ammette nessuna forma di deroga rispetto a un’idea di lavoro che purtroppo è tramontata. Per questi ragazzi i diritti del lavoratore sono inviolabili e in nessun modo sono disponibili a derogarvi.

- Obbedienza preventiva difensiva: il 26,3% degli intervistati adotta una strategia nella quale prevale una logica difensiva, hanno capito che il lavoro è cambiato e qualora si dovessero trovare in una situazione di rischio sanno di dovere rinunciare a qualcosa.

- Obbedienza preventiva pro-attiva: per il 27,1% dei giovani intervistati la strategia da tenere nell’odierno mercato del lavoro è rendersi disponibili solo in vista di una meta professionale adeguata, prevale in loro la dimensione del progetto lavorativo e sono consapevoli delle concessioni che saranno costretti a fare per perseguire i loro obiettivi.

- Obbedienza preventiva completa: la strategia difensiva e quella pro-attiva sono sullo stesso piano per il 34,9% dei giovani intervistati. Hanno consapevolezza che il mercato del lavoro macina ed espelle chi non si conforma alle sue regole e sono disponibili a sacrificarsi per raggiungere i propri obiettivi professionali.

Come affrontano le difficoltà lavorative persone con diverse condizioni biografiche, ciò potrebbe aiutare a comprendere come maturano le scelte dei ragazzi . Le seconde generazioni sono caratterizzate da una netta prevalenza di una strategia di completa obbedienza (41,9%). Il che è comprensibile: in loro convive la pressione sociale verso un inserimento precoce nel mercato del lavoro così da rendersi autonomi e non gravare più sulla famiglia con la le legittime aspirazioni, anch’esse veicolate dal nucleo familiare, verso un miglioramento personale e lavorativo. Queste due spinte li portano a essere il gruppo con la più ampia disponibilità alla deroga, la loro obbedienza preventiva alle regole distorte
del mercato del lavoro italiano e anche dovuta al fatto che provengono da contesti nei quali la cultura del lavoro standard è già stata superata da tempo o, banalmente, non c’è mai stata.

Tra i giovani expat si evidenzia una propensione verso un fronteggiamento pro-attivo (36%): la dimensione della progettualità lavorativa è una parte costitutiva della loro esperienza di vita, è il movente che li ha portati ad abbandonare l’Italia. All’estero hanno imparato che le odierne storture del lavoro non sono sempre e ovunque valide: le capacità alla fine sono premiate, anche se prima sono messe alla prova da una “gavetta” che comunque non è lunga e priva di prospettive come quella che sarebbe toccato loro rimanendo in Italia.

Allo stesso tempo, tra gli italiani all’estero si riscontra la quota più elevata di “disobbedienti” (20,6%), persone che non sono disposte ad assecondare le richieste di deroga perché, probabilmente hanno avuto la capacità di costruirsi in breve tempo una posizione lavorativa solida.

I giovani italiani che vivono ancora in famiglia sono molto simili ai ragazzi di origine  straniera, con loro condividono la doppia spinta all’emancipazione e all’auto-realizzazione (per cui eserciterebbero un’obbedienza completa alle nuove regole del lavoro nel 36,4% dei casi).

Allo stesso tempo, il 26,5% adotterebbe una strategia prettamente difensiva. All’interno di questo sottogruppo c’è però una differenza significativa tra coloro che hanno un capitale umano superiore e i non laureati (29,6 Vs. 21,8%). È presente anche una percentuale rilevante (28,7%) di ragazzi che hanno una strategia eminentemente pro-attiva.
L’eterogeneità delle posizioni rimanda al differente livello di “copertura” che può offrire il nucleo di origine.

Infine, i giovani che già vivono da soli. Tra di loro prevale, un fronteggiamento che cerca di tenere assieme continuità e soddisfazione lavorativa (36,4%). Allo stesso tempo, sono il gruppo all’interno del quale la strategia prevalentemente difensiva arriva ai livelli più alti: 32,9% una percentuale quasi doppia rispetto ai coetanei che vivono per contro proprio, ma all’estero. Anche qui le motivazioni sono evidenti, questi giovani sono consapevoli che per mantenere la propria autonomia personale il lavoro se lo devono tenere, a ogni costo, per cui si renderebbero disponibili a mettere da parte alcuni dei propri diritti.(13/09/2017-ITL/ITNET)

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