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LAVORO - DOTTORI DI RICERCA : STATU QUO: UNO SU CINQUE VIVE ALL'ESTERO (1.872 SU 9.974 OCCUPATI)

(2019-02-26)

    Uno specifico paragrafo viene dedicato dal Rapporto sul mercato del lavoro integrato  tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal, presentato ieri a Roma , allo statu quo dell'occupazione dei 'dottori di ricerca'  alla luce degli investimenti pubblici che vengono impegnati ma anche la "fuga"  all'estero del capitale umano che si determina in maniera sempre più esponenziale.

Si legge nel Rapporto : "La recente indagine sui dottori di ricerca (Istat, 2018a), condotta nel 2018 sugli individui che hanno conseguito il titolo nel 2014, permette di far luce sui loro percorsi di inserimento lavorativo e sulla possibilità offerta di contribuire allo sviluppo e all’innovazione nel nostro paese.

In base all’ultimo dato disponibile (Censimento 2011), gli individui con il dottorato di ricerca rappresentano lo 0,3% della popolazione italiana. Il flusso di giovani (25-34 anni) che conseguono il dottorato è pari nel 2016 allo 0,8 per mille degli individui della stessa classe di età. Confrontata su questo indicatore l’Italia si colloca in una posizione arretrata rispetto alla media dei paesi europei (1,3 per mille), distante da Slovenia, Danimarca e Germania, caratterizzate da un flusso annuale più cospicuo, superiore al 2,2 per mille.

A quattro anni dal conseguimento del titolo, i dottori di ricerca del 2014 con età compresa tra 25 e 34 anni presentano un tasso di occupazione pari al 93,8%; il 5% risulta invece non lavorare ed essere alla ricerca di un lavoro mentre l’1,3% non lavora e non lo cerca. Quasi uno su cinque (18,8%) dei dottori occupati vive all’estero (si tratta di 1.872 individui su 9.974 occupati) e tale fenomeno è in crescita, se si considera che tra coloro che avevano conseguito il dottorato in un ateneo italiano nel 2010 lavorava all’estero il 14,7% degli occupati.

A influenzare la scelta dei dottori di ricerca di trasferirsi in un paese diverso contribuiscono in maniera congiunta numerosi fattori di natura spesso diversa, come ad esempio le caratteristiche demografiche (età, sesso, cittadinanza), o la specificità del percorso di studi effettuato o piuttosto eventuali precedenti esperienze di mobilità che possono aver contribuito alla creazione di legami con il mondo produttivo o della ricerca all’estero.

Con l’obiettivo di isolare fra le diverse caratteristiche strutturali quelle che influenzano maggiormente la probabilità di migrare all’estero, è stata condotta una analisi multidimensionale (regressione logistica) che permette di quantificare l’intensità dei vari effetti .

Relativamente alle caratteristiche socio-demografiche, la cittadinanza risulta essere un fattore rilevante della mobilità geografica. A parità di altre condizioni, infatti, gli stranieri che hanno condotto gli studi dottorali in un ateneo italiano sono più propensi a lasciare il nostro paese, tornando nella maggior parte dei casi (55,5%) in quello di provenienza. A quattro anni dal conseguimento del titolo solo il 26,3% degli stranieri (pari a 259 dei 985 dottori di ricerca stranieri) è ancora presente nel nostro territorio: il dottorato in un ateneo italiano ha dunque rappresentato solo una tappa di passaggio.
A questo risultato si aggiunge un altro dato negativo per il nostro Paese, ovvero la scarsa attrattività quale meta per gli studi dottorali degli stranieri: la quota di studenti stranieri iscritti ai corsi di dottorato italiani è nel 2016 pari al 14,2%, valore ben al di sotto della media dei paesi Ue, pari al 22,6%. Ciò limita le caratteristiche di circolarità del fenomeno delle migrazioni qualificate, alimentando la perdita di risorse umane utili alla crescita e all’innovazione.

L’età assume un ruolo importante nello stabilire la condizione di mobilità: le generazioni più giovani (con età inferiore ai 28 anni) sono più propense alla mobilità (odds-ratio pari a 3,6) rispetto alle meno giovani (età maggiore a 40 anni) assunte come riferimento. A parità di altre condizioni le donne sono meno inclini degli uomini agli spostamenti internazionali; non emergono, invece, differenze statisticamente significative rispetto allo  stato civile. Anche le caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine del dottore di ricerca risultano non determinanti della maggiore propensione agli spostamenti trans-frontalieri.

A parità di altre condizioni, la presenza di figli ha un ruolo significativo e frenante sulla decisione di lasciare l’Italia.
Dall’analisi delle caratteristiche del percorso di studio emerge il ruolo rilevante della disciplina studiata: all’indirizzo disciplinare delle scienze fisiche e delle scienze matematiche e informatiche è associata una probabilità significativamente superiore (odds-ratio=4,4 e 3,3) rispetto all’area delle scienze giuridiche assunta come riferimento. Anche l’aver sperimentato periodi di studio all’estero durante il dottorato risulta esercitare un’influenza significativa sulla propensione agli spostamenti internazionali così come la ripartizione geografica dell’ateneo di dottorato: aver conseguito il titolo in un ateneo del Nord e del Centro si associa a una maggiore probabilità di mobilità verso l’estero rispetto agli atenei del Sud, presi a riferimento.

Né la votazione di laurea né l’aver concluso il dottorato nei termini previsti risulta invece influire sulla propensione
alla mobilità all’estero.

I paesi che richiamano la quota più elevata di dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo in Italia sono nell’ordine il Regno Unito, destinazione del 21,2% di coloro che vivono all’estero, gli Stati Uniti (14%), la Germania (11,7%) e la Francia (11,2%). Le migrazioni hanno però destinazioni diverse in ragione all’area disciplinare degli studi , attratte dai poli che risultano all’avanguardia nei rispettivi settori di interesse. Si nota, ad esempio, come per i dottori delle Scienze fisiche il secondo paese di destinazione delle migrazioni sia la Svizzera (15%); il Belgio, invece, risulta il primo paese verso cui si dirigono i dottori delle Scienze giuridiche; Stati Uniti d’America e Regno Unito sono la meta di un dottore su due dell’area delle Scienze mediche.

I dottori di ricerca che hanno lasciato il nostro paese sono caratterizzati da un tasso di occupazione pari al 96%, valore leggermente superiore (2 punti) rispetto al tasso di occupazione di coloro che restano. Tuttavia l’occupazione di chi vive all’estero presenta un’incidenza maggiore del lavoro a termine (63% in confronto al 47% per chi lavora in Italia). Un contributo considerevole all’occupazione a termine è fornito dalle borse di studio o assegni di ricerca, che sostengono il 33,4% degli occupati all’estero; la stessa percentuale per gli occupati in Italia è inferiore di oltre un terzo non raggiungendo il 20%. Anche l’occupazione dipendente a termine assume un maggior peso all’estero rispetto all’Italia, interessando nel primo caso quasi il 26% degli occupati e mantenendosi al di sotto del 19% per chi vive in Italia.

Se si guarda alla professione svolta e all’attività economica nella quale sono occupati i due collettivi, per chi vive all’estero si riscontra una maggiore conformità dello sbocco lavorativo agli obiettivi degli studi dottorali conclusi. In Italia, a quattro anni dal conseguimento del titolo, lavora come professore o ricercatore presso l’Università il 4,3% dei dottori di ricerca a dispetto del 13% di chi vive all’estero; oltre i confini nazionali è maggiore anche l’incidenza dei ricercatori presso enti pubblici di ricerca (il 7,4% rispetto al 2,4% per chi lavora in Italia). Il 35,6% e il 20,7% dell’occupazione all’estero è impiegata rispettivamente nel settore dell’istruzione universitaria  e della ricerca pubblica, mentre in Italia l’occupazione in queste attività economiche presenta quote molto più contenute (21,8% e 8,6% rispettivamente), privilegiando maggiormente rispetto all’estero il settore dell’istruzione non universitaria, dove trova impiego il 18,4% degli occupati in Italia (3% degli occupati all’estero), e il settore della pubblica amministrazione e della sanità (18,1% degli occupati in Italia e 3,6% di quelli all’estero).

In base alle dichiarazioni degli occupati si desume inoltre che all’estero vi sia un maggiore riconoscimento formale del dottorato di ricerca: più del 67% degli intervistati ritiene, infatti, che il dottorato sia un titolo espressamente richiesto per accedere all’attività lavorativa mentre la stessa percentuale si dimezza per gli occupati in Italia (34%).

Interpellati sulla qualità del lavoro svolto, gli occupati all’estero esprimono livelli di soddisfazione sistematicamente più elevati in relazione a tutti gli aspetti del lavoro indagati. Le maggiori distanze fra i due collettivi riguardano la possibilità di arricchimento professionale offerta dal lavoro e al trattamento economico.

Più allineati risultano invece i livelli di soddisfazione rispetto al grado di autonomia. Nonostante l’incidenza più elevata di lavoro a termine, gli occupati all’estero si esprimono in modo più ottimistico dei colleghi rimasti in Italia rispetto alla stabilità del posto di lavoro, suggerendo la presenza di condizioni più favorevoli al rinnovo dell’occupazione. (26/02/2019-ITL/ITNET)

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